mercoledì 28 febbraio 2018

Non deroghiamo al buon uso della lingua di Dante

Sarebbe "cosa buona e santa" che i linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota stabilissero - una volta per tutte, al fine di non "confondere" i lettori non avvezzi alla buona lingua italiana -  quale sia/è la preposizione da adoperare con il verbo "derogare". Si deroga "a" o si deroga "da"? Togliamoci subito il dubbio: la sola preposizione corretta è "a". I due linguisti, dunque, danno versioni diverse in due libri diversi. In "Viva la grammatica!" ritengono la preposizione "a" la sola abilitata a seguire il verbo derogare. In "Ciliegie o ciliege?" (si clicchi qui e si vada alla lettera "D"), invece, ammettono entrambe le preposizioni ("a" e "da").


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La parola proposta da questo portale: busigno. Sostantivo maschile che vale "piccola cena". Si veda anche qui.

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Generalmente la trasmissione televisiva "Porta a porta", di Bruno Vespa, presta la massima attenzione all'uso corretto della lingua italiana. Ieri, però, abbiamo letto un "metereologo" in luogo della forma corretta meteorologo.

martedì 27 febbraio 2018

Conosci "alla perfezione" la lingua italiana?


Mettete alla prova la conoscenza del vostro italiano cliccando su questo sito. Sono dodici domande, rispondendo alla prima si "aprono" le successive.

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Gentili amici, amatori del bel parlare e del bello scrivere, prima di cliccare su questo collegamento fornitevi di un cardiotonico (non vorremmo avervi sulla coscienza). Troverete in nero la parola che potrebbe compromettere il vostro muscolo cardiaco.  

lunedì 26 febbraio 2018

Shampoo o sciampo?


Cercando in rete per vedere quale sia la forma piú diffusa tra "shampoo" e "sciampo" ci siamo imbattuti nel sito della Treccani. Nella rubrica "Domande e risposte" una lettrice domandava quale fosse la forma - tra le due - da preferire in lingua italiana. Nella risposta, che riportiamo, siamo rimasti allibiti davanti al pronome relativo "chi" riferito non a una persona - come vuole la grammatica - ma (erroneamente) a una cosa. Per non essere tacciati di presunzione copincolliamo ciò che riporta il DISC (Dizionario Sabatini Coletti): chi


1 pron. inv. (riferito solo a personasolo sing.)

·         • pron. Svolge funzione di dimostrativo o di indefinito nella frase principale e di relativo nella dipendente. Nella principale può avere ruolo di sogg., ogg. o compl. indir. preceduto da prep.; nella dipendente può avere sempre ruolo di sogg. o ogg. ma ruolo di compl. indir. solo se questo è dello stesso tipo che si ha nella principale (p.e. darò i soldi a chi li devo, “a colui al quale…”) [...].

·          Ecco la risposta:

Dal punto di vista formale, shampoo è un anglismo non adattato: così come ci è arrivato da Oltremanica, nel 1930, così l'abbiamo adottato. Ma già dal 1762 avevamo accolto la variante sciampo, adattata sotto il profilo fonomorfologico, beninteso sempre derivata dall'originale shampoo. Ciò vuol dire che l'anglismo ha avuto due momenti di diffusione, come due ondate, successive nel tempo.

A noi non interessa tanto chi sia arrivato prima o dopo, ma se l'una o l'altra forma si sia caricata di qualche specificità particolare. Intanto, la forma non adattata shampoo, invariabile, si è imposta come forma più diffusa, rispetto a sciampo (plurale regolare sciampi)*: nelle annate 1992-2015 del «Corriere della sera», shampoo ricorre 770 volte, sciampo 13 (di cui una volta al plurale sciampi). Questa situazione è perfettamente rispecchiata dalle scelte dei dizionari della lingua italiana, che presentano shampoo come forma principale e sciampo come forma secondaria (si badi: “secondaria”, non “scorretta”).

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* Il DOP riporta anche il plurale invariato (ndr).


domenica 25 febbraio 2018

Vergognarsi "a" o vergognarsi "di"?


Neofascismo, Bindi: ''Non ci si vergogna più a definirsi nostalgici, preoccupanti sottovalutazione e compiacenza''

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Il titolo che avete appena letto - di un giornale in rete - ci lascia/ha lasciato molto perplessi sulla corretta costruzione del verbo pronominale "vergognarsi". Il verbo in questione regge la preposizione "a" o "di"? A nostro parere regge la preposizione "di": Giuliano si vergognava "di" parlare in pubblico. Sempre a nostro avviso, la prova del nove circa l'uso corretto della preposizione "di" si ha ponendoci la domanda: di che cosa dobbiamo vergognarci? Indubbiamente dobbiamo rispondere adoperando la preposizione di... Come sempre attendiamo smentite da parte di qualche linguista "di passaggio" su questo sito, nonostante la totalità (?) dei vocabolari dell'uso siano "dalla nostra parte". Il titolo corretto, dunque, avrebbe dovuto recitare - a nostro avviso - : «[...]piú di definirsi (meglio: definirci) nostalgici [...]».

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La parola proposta da questo portale: approvecciare. Verbo denominale intransitivo: trarre profitto, avvantaggiarsi e simili. È tratto da proveccio.  

sabato 24 febbraio 2018

Corbellerie "linguistiche"


LE GRAMMATICHE  sostengono - a spada tratta - che “dunque” essendo una congiunzione deve ‘congiungere’, appunto, due proposizioni ed è adoperata correttamente solo se serve per concludere (un discorso) o per trarre una conseguenza: glie l’ho promesso, ‘dunque’ non posso esimermi. Corbellerie, corbellerie. Dunque pur essendo una congiunzione si può adoperare benissimo - ed è un uso correttissimo - all’inizio di una frase o di un periodo quando si vuole riprendere un discorso interrotto, anche se è trascorso molto tempo dall’... “interruzione

SEMPRE in tema di corbellerie linguistiche, vorremmo che le grammatiche finissero di riportarne una dura a morire. Ci riferiamo al famoso “sé” pronome che perde l’accento quando è seguito da stesso e medesimo. È una corbelleria, appunto. Il pronome sé si accenta sempre. Non lo diciamo noi, umili linguai. Lo hanno stabilito fior di linguisti, tra i quali Amerindo Camilli, certamente molto più autorevole di alcuni “illustri sconosciuti”, autori di grammatiche varie.

UN'ALTRA corbelleria, questa sostenuta da tutti (?) i vocabolari dell'uso, riguarda l'invariabilità del sostantivo "prestanome". Per quale oscuro motivo non si può pluralizzare? Giovanni è il prestanome di Marco; Lucio e Claudio erano i prestanomi dei due arrestati. Prestanome, insomma, non è un nome composto con una voce verbale (presta) e un sostantivo maschile singolare? E i nomi cosí formati non si pluralizzano regolarmente? Restano invariati solo se si riferiscono a un femminile: Maddalena e Susanna erano le prestanome.



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La parola proposta da questo portale: insonte. Aggettivo non attestato nei vocabolari perché desueto ma dal "sapore" aulico. Significa innocuo, che non fa del male, innocente e simili.




venerdì 23 febbraio 2018

Un purosangue in Borsa


Due parole, due, su un argomento che, ci sembra, abbiamo trattato su “Il Cannocchiale”: il crack. Lo riproponiamo, eventualmente, perché molti, per non dire tutti, si ostinano a scriverlo in modo orrendamente errato: crack, appunto. Cominciamo con il dire che la grafia corretta è crac (senza il k). È, infatti, una voce onomatopeica che riproduce il rumore di una cosa che si rompe, che si sfascia, che crolla.
Il caso vuole che questo termine si sia diffuso in Italia dal tedesco (non dall'inglese!) Krach, in seguito al crollo bancario, così chiamato, avvenuto a Vienna il 9 maggio 1873. Lasciamo stare, quindi, l'inglese crack (tra l'altro i giornali inglesi adoperano la voce tedesca) e usiamo – per indicare un fallimento, un crollo finanziario – il nostro italianissimo crac, riservando la grafia inglese - se proprio vogliamo adoperare questo barbarismo - esclusivamente al campo dell'ippica.
Il crack, infatti, è un purosangue, un cavalo di razza, un cavallo famoso, un campione vanto di una scuderia (l'inglese 'to crack' significa anche vantarsi). Sarebbe bene, però, al fine di evitare equivoci ma soprattutto per scrivere in lingua che la stampa e i mezzi di informazione, in genere, abbandonassero le parole straniere e tornassero alla madre lingua che offre un'ampia scelta di vocaboli che fanno alla bisogna, tra cui: cavallo campione; campione o anche                            campionissimo.
Non vorremmo che un giorno si presentasse in Borsa – per colpa dei giornali – un bellissimo crack per essere quotato a un prezzo da capogiro! Se messo alla porta avrebbe tutto il diritto di risentirsi e menare calci a destra e a manca. Non si inganna nessuno, neanche gli animali. E a proposito di purosangue è interessante notare che,
contrariamente a quanto si legge nelle comuni grammatiche e nei comuni vocabolari, laggettivo e sostantivo “purosangue” non è tassativamente invariabile. Essendo un nome composto si può pluralizzare correttamente secondo la regola della formazione del plurale dei nomi composti. Detta norma stabilisce che i nomi composti di un aggettivo e un sostantivo formano di regola il plurale come se fossero nomi semplici (cambia, quindi, la desinenza del sostantivo): il biancospino, i biancospini; la vanagloria, le vanaglorie; il purosangue, i… purosangui. Coloro che preferiscono dire e scrivere “purosangui, pertanto, non possono essere tacciati di crassa ignoranza linguistica.



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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei vocabolari dell'uso: alloppicare. Variante di alloppiare e sta (in senso figurato) per "dormicchiare", "appisolarsi" e simili.


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Da un quotidiano in rete:


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Ripeteremo fino alla nausea che "neo-" è un prefissoide e in quanto tale si scrive "attaccato" alla parola che segue: neorettore. Leggiamo dal Treccani: «nèo- [dal gr. νεο-, forma che assume in composizione l’agg. νεός «nuovo, recente»]. – 1.Primo elemento di parole composte, derivate dal greco o formate modernamente (anche nella terminologia lat. scient.), nelle quali ha il sign. di «nuovo, moderno, recente». In partic.: a. Con riferimento a persona che si trovi da poco tempo in una determinata situazione: neonatoneofitaneoeletto (e analogam. neodottoreneosenatore e altri, che non si è ritenuto necessario, per la loro stessa trasparenza, registrare nel rispettivo luogo alfabetico)[...]». Si veda anche qui.





giovedì 22 febbraio 2018

Areazione? No, per carità!



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In questo titolo di un quotidiano in rete - sorvolando sul barbarismo "sit-in", attestato, purtroppo, anche in alcuni vocabolari di lingua italiana (e sul "ko") -  colpisce l'orrendo strafalcione "areazione". La forma corretta è aerazione, vocabolo composto con il prefisso "aer(o)" (aria). Questo errore si sente uscire, molto spesso, anche dalla bocca di gente cosí detta acculturata... Per maggiori chiarimenti consigliamo di dare un'occhiata quiqui e qui.

mercoledì 21 febbraio 2018

Non vale un...

Una gentile lettriceche desidera mantenere l'anonimato, ci scrive da Pescara chiedendoci  «per quale ragione quando si vuole mettere in evidenza la stupidità di una persona o l'inconsistenza di una determina cosa si ricorre agli attributi maschili. «Non si dice, infatti - con volgarità - che ciò non vale un... e che quel tizio è un emerito testa di...?». Gentilissima signora, per quel che ne sappiamo, il motivo per cui si ricorre a queste espressioni triviali si perde nella notte dei tempi: da che mondo è mondo - chissà perché - nell'immaginario dell'uomo gli organi genitali (maschili e femminili) sono sempre stati associati al concetto di imbecillità e di nullità. Due parole - fra le tante, di uso comune e dal "sapore" un po' volgare - ce lo confermano: fesso e fregnone. La prima è voce partenopea, tratta da "fessa", l'organo genitale femminile; la seconda, con la variante "piú garbata" frescone, non è altro che l'accrescitivo del vocabolo dialettale romano  fregno, l'organo maschile.

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La parola proposta da questo portale: cadometria. Sostantivo femminile. Scienza che si occupa della misurazione dei vasi, delle botti ecc. «Quella parte della geometria pratica che si applica alla stazatura delle botti od altri vasi da vino, cioè alla misura della loro capacità o de liquidi imbottati, viene designata colla parola cadometria, composta delle voci greche «gooc, vaso per vino, e uérooy, misura. Il famoso Keplero, dice Baden Powell nella sua Storia della filosofia naturale, e per la circostanza accidentale di avere osservato gli errori di uno stazatore ignorante nel misurare alcune botti da vino, fu condotto a investigare ...». Si veda qui. 

martedì 20 febbraio 2018

Controverso=contestato? Non sempre



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I titolisti di questo giornale in rete ritengono, probabilmente, che controverso sia sinonimo di contestato. No, controverso e contestato non sono interscambiabili, per lo meno non in tutti i contesti, e hanno significati diversi. Il titolo in oggetto avrebbe dovuto recitare, correttamente: «[...] sul vescovo contestato». Vediamo le accezioni dei due termini dando la "parola" al vocabolario Treccani in rete: controversia e contestazione.

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La parola proposta da questo portale, non a lemma nei vocabolari dell'uso: gramolazzo. Si dice di persona magrissima, quasi scheletrica.

lunedì 19 febbraio 2018

Colorato "da" o "di"?


Da "domande e risposte"  del vocabolario Treccani in rete:

DOMANDA

La mia non è una domanda ma un'osservazione: al lettore che chiedeva delucidazioni circa l'ammissibilità della grafia "praivasi" si sarebbe potuto (e forse anche dovuto) ricordare che esiste il vocabolo "privatezza", lemmatizzato nei più autorevoli dizionari, in primis Treccani e Devoto-Oli.

RISPOSTA

Accettiamo con piacere l’osservazione, per quanto colorata da una sfumatura di rimprovero. In realtà, ci si è limitati a rispondere, ci sembra adeguatamente, al nucleo del quesito. Questa limitazione non ci sembra che pregiudichi o contraddica la lemmatizzazione di privatezza all’interno del vocabolario Treccani. Naturalmente, si potrebbe, ogni volta che entra in scena un anglismo, ragionare sulla sua maggiore o minore liceità, opportunità o gradevolezza (criterio, quest’ultimo, in realtà quanto mai soggettivo e fin troppo maneggevole). Ma ci sembra, anche sotto questo profilo, che l’impegno della Treccani non sia mai mancato. Cogliamo l’occasione per annunciare che, nei prossimi mesi, nella sezione Lingua italiana del portale Treccani.it, sarà in linea uno speciale dedicato ai forestierismi nella lingua italiana.

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Il verbo "colorare" - sia in senso proprio sia in senso figurato - si costruisce con la preposizione "di", non "da". E sembra che tutti i dizionari concordino. Lo stesso vocabolario Treccani in rete riporta gli esempi con la preposizione "di". La risposta corretta, quindi, avrebbe dovuto recitare: «[... per quanto colorata di una sfumatura di rimprovero. [...]». Come mai chi ha risposto al lettore non ha preso in considerazione quanto riporta - in proposito - il vocabolario Treccani?

domenica 18 febbraio 2018

Come si chiamano le dita dei piedi?


Su Wikipedia abbiamo “scoperto” che le dita (i diti, se considerati separatamente) dei piedi, come quelle della mano, hanno un nome: alluce, illice (o melluce), trillice, pondolo (o pondulo) e minolo (o mellino). Segnaliamo la “scoperta” per curiosità perché un esperto del settore, il prof. Paolo Ronconi, direttore del Centro di Chirurgia del Piede dello IUSM di Roma, sostiene che “Le dita del piede non vengono indicate come le dita della mano ma: Alluce, secondo, terzo, quarto, quinto”. Anche il  “Vocabolario Nomenclatore” di Palmiro Premoli  è dello stesso avviso del docente universitario: Alluce (o dito grosso), gli altri si indicano con il numero.


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La parola proposta da questo portale: cacatamente. Avverbio, dal "sapore" un po' volgare (di cui ci scusiamo), che vale "male e piano". Si veda anche qui e qui.



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Da un quotidiano in rete:

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Sensazionale! Il vaticanista abita dentro la voragine che si è aperta a Roma nella zona della Balduina.

sabato 17 febbraio 2018

Gli abitanti della Basilicata




Una interessante disquisizione di Paolo D'Achille sugli abitanti della Lucania/Basilicata.

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La parola proposta da questo portale e non a lemma nei vocabolari dell'uso: barberare, vale a dire girare saltellando.

venerdì 16 febbraio 2018

Il "sesso" di Trastevere


Ancora due orrori, uno "veniale" (matita rossa) l'altro "mortale" (matita blu), rilevati su un quotidiano in rete.


Non li sveliamo, lasciamo ai lettori, amanti/amatori del bel parlare e del bello scrivere, il piacere di... scovarli e di riportarli nei commenti.

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Sebbene e sibbene - si presti attenzione a questi due termini perché non sono interscambiabili. Il primo è una congiunzione concessiva e richiede il verbo al congiuntivo:  sebbene fosse molto stanco accontentò il figliolo recandolo ai giardinetti. Il secondo (scritto anche in grafia analitica, sí bene) è una congiunzione avversativa, con il valore di "ma", "bensí"  e si adopera dopo una proposizione negativa: non abbatterti, sibbene (sí bene) reagisci sempre contro le avversità.



mercoledì 14 febbraio 2018

Il regalo di S. Valentino


In occasione della festa di San Valentino riproponiamo un nostro vecchio intervento, certi di far cosa gradita ai gentili lettori.

Oggi è San Valentino e la tradizione vuole che sia il protettore degli innamorati. Abbiamo pensato, per tanto, di fare un omaggio, un regalo ai giovani innamorati, innamorati, però, della... lingua, spiegando loro l’etimologia del  “regalo” in generale.

   Prima, però, per la gioia delle lettrici che ci onorano della loro attenzione, riportiamo un pensiero di Anita Loos sulle cose da regalare (alle innamorate): “Quando ti baciano la mano, questo può farti molto, molto piacere, ma un braccialetto di zaffíri o un diamante durano tutta la vita” (amanti e innamorati, siete avvertiti...).

   E veniamo al regalo. Anche in questo caso (come quasi sempre, del resto) dobbiamo chiamare in causa il padre della nostra lingua: il nobile latino. Per spiegarci, però, è necessario prendere il discorso un po’ alla lontana. Vediamo.

  I Latini, nostri progenitori, avevano un verbo,  “regere”, passato in italiano tale e quale se si eccettua l’aggiunta di una  “g”. Questo verbo aveva un’infinità di significati: governare, guidare, reggere, condurre, dirigere. Il sostantivo  “re”, infatti non è altro che un deverbale, vale a dire un nome derivato dal verbo in questione, precisamente è l’accusativo  “re(gem)”, tratto, per l’appunto, da  “regere”. Il re, quindi, è colui che “regge” le sorti di una Nazione, di uno Stato.

   Da  ‘re’ sono stati formati gli aggettivi  “regio” e  “regale”. Da quest’ultimo, attraverso la lingua dei nostri cugini spagnoli, ci sono giunti i termini  “regalo” e  “regalare”. Il regalo, propriamente, è un  “dono al re”, mentre lo spagnolo “regalar” – sempre propriamente – significa  “rendere omaggio al re”.

  Attraverso i secoli il ‘regalo’ ha perso il significato originario di  “dono al re” assumendo l’accezione generica di  “dono”, “omaggio”, “regalo” e simili; mentre il verbo ‘regalare’ il significato, sempre generico, di  “offerta che si ritiene utile e gradita”.

sabato 10 febbraio 2018

Partire per i monti della luna...


 ... vale a dire intraprendere un viaggio molto lungo verso un luogo favoloso ma molto difficile da raggiungere. Il modo di dire – forse poco conosciuto – si rifà a una ipotetica catena di monti che gli antichi geografi avevano stabilito essere al centro dell’Africa, vicino all’Equatore e dalla quale ritenevano nascesse il fiume Nilo. La credenza popolare, inoltre, voleva che le sue viscere contenessero immense miniere d’oro e d’argento. C’è da dire, per la cronaca, che la convinzione che questi monti esistessero realmente perdurò fino alla metà del XIX secolo.



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Fra poche settimane i cittadini italiani saranno chiamati alle urne. Siamo, per tanto, in piena campagna elettorale. Non vogliamo, da questo portale, fare propaganda per questo o quel partito, non è nella nostra filosofia; vogliamo solo vedere, sotto il profilo prettamente linguistico, come è nata e che cosa è, esattamente, la  “campagna elettorale”. Vediamo, innanzi tutto, che cosa è la campagna in senso lato. È, come recitano i vocabolari, un’ampia distesa di terreno aperto e pianeggiante, coltivato o coltivabile, lontano dai grossi centri abitati. Il termine viene, come il solito, dal latino  “campania(m)”, tratto da  “campus” (campo), di origine non chiara. Bene. Ma cosa c’entra l’agricoltura con le elezioni, cioè con la campagna elettorale? si domanderanno i nostri amici blogghisti. È presto detto. Dal significato di campagna come  “terreno che può essere coltivato” nascono le espressioni  “campagna bacologia”, “campagna granifera”, dove con il termine campagna si intende il  “periodo in cui si svolge un’attività agricola”. Di qui, è intuitivo, la locuzione campagna elettorale, cioè  “periodo atto allo svolgimento della propaganda elettorale”. Infine, attraverso un’altra evoluzione semantica, sono state coniate le espressioni  “campagna di stampa”, “campagna abbonamenti”, “campagna per il tesseramento” e via dicendo dove con ‘campagna’ si intende, appunto,  “periodo atto a...”.



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Un cortese lettore di questo portale domanda, scandalizzato, se è corretta la frase letta in un giornale (che non cita): “Piero aveva i diti medi fratturati”. Diti? si chiede il lettore. Non si dice "dita"?  Sí, gentile amico, la frase è correttissima; questa volta diamo atto al giornalista, estensore dell’articolo, di aver usato la lingua di Dante in modo corretto. Il plurale di dito è: “dita” (femminile) se  si considerano nel complesso: le dita delle mani, del piede; “diti” (maschile) se considerati separatamente: i diti medi; i diti mignoli.
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È corretto apostrofare il pronome personale “ci” davanti al verbo avere? Molto spesso mi capita di leggere, sulla stampa, frasi tipo “c’hanno detto che...”. Insomma, ci hanno o c’hanno? ci domanda un cortese lettore di Fiuggi. Nessuna legge grammaticale vieta di apostrofare la particella pronominale  “ci” e l’omonimo avverbio di luogo davanti a parole che cominciano con le vocali  “e” e  “i”: c’entra, c'invitò. Alcuni linguisti ammettono l’apostrofo anche davanti ad altre vocali. Ci sembra un uso scorretto e da condannare. L’elisione è corretta solo se, come dicevamo, la parola che segue la particella comincia con una “e” o una “i” al fine di conservare alla consonante “c” il suono palatale. Davanti alle altre vocali la “c” acquisterebbe un suono gutturale: ci approvò e non c’approvò; ci andrei e non c’andrei, ché si leggerebbero rispettivamente “capprovò” e  “candrei”. Per lo stesso motivo bisogna scrivere ci hanno e non c’hanno in quanto si leggerebbe “canno”.

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La parola proposta da questo portale: porrigine. Sostantivo femminile, in medicina indica una qualunque affezione del cuoio capelluto.

giovedì 8 febbraio 2018

Una "idiozia linguistica"


Grazie, grazie davvero! Questa "idiozia linguistica" è sulla bocca di buona parte dei cosí detti conduttori di trasmissioni  radiotelevisive. Alla fine della chiacchierata (o dell'intervista), all' atto di congedare l'ospite di turno non manca, da parte dell'ospitante, la classica frase: "Grazie, grazie davvero dott. Pomponio". La domanda - come diceva qualcuno - sorge spontanea: c'è anche un grazie "per ischerzo"? Quest'idiozia fa il paio con l'altra: alle prime luci dell'alba. L'alba non indica il "primo chiarore del giorno", vale a dire la prima luce del giorno? Correttamente, quindi: all'alba o alle prime luci del giorno.

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Secondo una  “regola fasulla” insegnataci a scuola l’articolo determinativo femminile plurale “le” non si può elidere: le erbe e non l’erbe. No, amici e amanti della lingua, questa regola “vale” solo per le parole che cominciano con una vocale diversa dalla “e”: le ombre (errato: l’ombre). È lo stesso caso, insomma, dell’articolo plurale maschile “gli” che si può apostrofare davanti ai nomi che cominciano con la “i”: gl’italiani. Scrivete pure, se vi piace, l’eliche e l’erbe nessuno, ben ferrato in lingua, potrà tacciarvi d’ignoranza linguistica. Fior di scrittori elidono l’articolo plurale “le”, naturalmente se la parola che segue comincia con una “e”.

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La parola proposta da questo portale: muzzo. Aggettivo. Si dice di sostanza alimentare che ha un sapore acidulo, agrodolce.

mercoledì 7 febbraio 2018

Pronome relativo: congiuntivo e misto



La maggior parte delle persone – siamo sicuri – non hanno, o se preferite ha, mai sentito parlare del “pronome congiuntivo” e del “pronome misto” perché questi termini non sono trattati da buona parte dei sacri testi grammaticali. Eppure vengono adoperati da tutti, sia pure inconsciamente. Bene. Vengono chiamati cosí dai linguisti i pronomi relativi “che” e “chi”. Il primo perché può ‘congiungere’ due proposizioni: mi sembra di sentire ancora le parole di mio padre, ‘che’ mi ha sempre detto di comportarmi onestamente. Il secondo, cioè “chi”, è definito misto perché unisce in sé la funzione di due diversi pronomi: dimostrativo (quello, colui; quella, colei) e relativo (il quale, la quale). Occorre dire, a questo proposito, che il secondo svolge sempre le funzioni di soggetto; il primo oltre che soggetto può essere sia complemento oggetto sia complemento indiretto: chi va in acqua si bagna [colui (soggetto) il quale (soggetto) va in acqua si bagna]; faremo di tutto per cercare di trovare chi può aiutarti [faremo di tutto per cercare di trovare colui (complemento oggetto) il quale (soggetto) può aiutarti]; questo libro è di chi lo vuole [questo libro è di colui (complemento indiretto) il quale (soggetto) lo vuole]. 




martedì 6 febbraio 2018

Un titolo "scioccante"


Noi, invece, siamo rimasti scioccati leggendo il titolo di questo giornale in rete. Cercasi? No, cercansi (o si cercano), questa la forma corretta in buona lingua italiana. Si tratta di un "si passivante" (non di un "si impersonale"): le commesse "sono/vengono" cercate.  Per quanto attiene a "shock" o "choc", se lo italianizzassimo in "scioc", come il verbo "scioccare"?

domenica 4 febbraio 2018

"Spigolando" qua e là...


DUE PAROLE, due, sul pronome (riflessivo)  perché non sempre è adoperato correttamente. Innanzi tutto si scrive sempre con l’accento, anche quando è seguito da stesso o da medesimo e si riferisce solo al soggetto (sia singolare sia plurale) della proposizione. Quando non è riferibile al soggetto va sostituito con luileiloro, secondo i casi; diremo o scriveremo, quindi, che “il bambino già si veste da ” e che “la mamma ha voluto che i figlioli andassero con lei”. Quando il soggetto è plurale, secondo alcune grammatiche, il “sé” può essere sostituito con “loro”; lo deve essere sempre, invece, quando si vuole indicare un’azione reciproca. Sono errate, per tanto, alcune frasi che abbiamo estrapolato dalla stampa: “Il cantante, attesissimo, non sapeva che tutti parlavano di sé”; “Il mondo andrebbe meglio se gli uomini si amassero e parlassero di piú tra sé”.



SPESSE VOLTE, probabilmente senza rendercene conto, infarciamo i nostri scritti di preposizioni che, “in realtà”, sono superflue se non addirittura errate. Sarebbe bene, per tanto, rileggere con la massima attenzione le nostre “opere letterarie” prima di darle, si fa per dire, alle stampe. Qualche esempio renderà il tutto piú chiaro. Vediamo, quindi, piluccando qua e là, di “scovare” queste preposizioni mettendole in corsivo. I coniugi, nonostante la stanchezza per il lungo viaggio, alla (la) mattina seguente si alzarono prestissimo; in riguardo a lui, tutti sarebbero stati d’accordo che comportandosi in quel modo sarebbe stata un’ingiustizia; è veramente difficile a descrivere quel che è successo l’altro giorno; l’assemblea, per acclamazione, ha eletto a presidente della Società il rag. Sempronio; è stato notato, da tutti, che per tutto il tempo della conferenza Giovanni e Virgilio bisbigliavano fra di loro; a questo punto gentili amici, non mi resta altro che di salutarvi caramente; state tranquilli, verremo a trovarvi dopo di cena; nessuno osava di entrare in quella stanza; in quell’anno tutti gli imputati erano minorenni.





LA CONGIUNZIONE “e”, lo dice la stessa parola, per lo piú ha valore ‘congiuntivo’ e ‘aggiuntivo’: noi e voi. Ma ha anche un altro “valore” poco conosciuto: avversativo: l’oratore ha parlato per tre ore, e non ha detto nulla. È un pleonasmo “obbligatorio” quando forma locuzioni interponendosi fra ‘tutti’ e un aggettivo numerale cardinale (tutt’e cinque) o fra un participio passato e l’aggettivo bello: bell’e detto. È un pleonasmo inutile, invece, collocare la “e” fra due numerali: cento e sette. Molto meglio: centosette. Unita a un avverbio richiede il cosí detto raddoppiamento sintattico: eccome, eppure, ebbene, epperciò ecc.



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La parola proposta da questo portale: ottilustre. Aggettivo, non attestato in tutti (?) i vocabolari dell'uso, sinonimo di quarantenne. Alla lettera: che ha otto lustri. È una bella donna ottilustre. Perché un periodo di cinque anni (quinquennio) si chiama "lustro"? Lo apprendiamo dal dizionario etimologico di Ottorino Pianigiani anche se - lo abbiamo scritto altre volte - non è ritenuto fededegno da numerosi linguisti. In proposito stupisce il constatare che il Tommaseo-Bellini non fa menzione alcuna di lustro nel significato di cinque anni. Si veda anche qui.