sabato 30 settembre 2017

Merendare col facchino





Chi non conosce – si pure per pratica – il significato di “facchino”? Se non altro basta aprire un qualsivoglia vocabolario della lingua italiana alla voce in oggetto e leggere: “chi, per un certo compenso, trasporta oggetti pesanti; specialmente nelle stazioni ferroviarie o nei porti” e, con significato figurato, e soprattutto spregiativo, “persona dai modi rozzi e volgari”. Bene. Occorre dire, però, che in origine, quando cioè nacque, questo sostantivo non aveva l’accezione volgare odierna, anzi…  Se oggi, qualcuno di voi, cortesi amici, di ritorno da un viaggio di piacere all’estero, si rivolgesse a un funzionario di dogana alla frontiera e lo apostrofasse con un “facchino” offenderebbe il dirigente e potrebbe passare anche un brutto quarto d’ora. Non era, invece, un’offesa quando il termine facchino vide la luce, anche se non tutti concordano sull’etimologia del vocabolo. Il facchino, infatti, originariamente, era lo “scrivano di dogana”. Secondo G.B. Pellegrini (“Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all’Italia”) il vocabolo risale alla voce araba “faquih”, teologo, giureconsulto, e passato in seguito a indicare il “legale chiamato a dirimere controversie relative alla dogana”. Il passaggio “corrotto” semantico (significato delle parole) da “doganiere” a “portatore di pesi” (facchino) sarebbe avvenuto in seguito alla gravissima crisi economica del mondo arabo, allorché, nei secoli XIV e XV, i “doganieri” furono costretti – per sopravvivere – al piccolo commercio di stoffe che essi stessi trasportavano – sulle proprie spalle – di piazza in piazza. Con il tempo, quindi, il facchino ha perso il significato “austero” di funzionario di dogana per acquisire quello spregiativo di persona rozza, volgare e per questo motivo si tende a sostituirlo con un termine più “civile”: portabagagli.

Restando in tema di etimologia, vediamo come è nata la “merenda” che – come sappiamo – è una piccola colazione che si fa, generalmente, nel pomeriggio, tra il pranzo e la cena. Diamo la parola, in proposito, a Lodovico Griffa. “Uno dei castighi (…) per i ragazzi era la privazione della merenda (…). Non discutiamo qui se questo castigo  corrisponda ai canoni di una corretta pedagogia; fermiamoci invece a considerare come esso ci riveli un certo modo di pensare a proposito della merenda. Chi ricorreva a questa punizione non intendeva certo privare il ragazzo di una cosa che gli fosse indispensabile o che gli venisse per diritto insopprimibile. Semplicemente pensava di non potergli concedere una cosa, che, essendo un di più, il ragazzo ‘doveva meritarsi’ e che invece con il suo comportamento non aveva meritato. La parola ‘merenda’, infatti, significa  proprio ‘cose da meritare’ (è pari pari il gerundivo latino ‘merenda’, da ‘merere’, meritare, propriamente ‘cose da meritarsi per cibo’, ndr) (…). I nostri buoni vecchi dunque vedevano la merenda pomeridiana (che gli adulti usualmente non consumano) non come un pasto indispensabile (…) ma come un premio aggiunto al normale nutrimento: in quanto premio, essa si concedeva solo a chi l’aveva meritata. I pedagogisti, gli igienisti, i pediatri ci diranno se effettivamente la merenda vada considerata a questo modo; di fatto però nei tempi andati il concetto che si aveva, tradito proprio dal nome ‘merenda’, era questo”.

Sempre per gli amatori dell’etimologia, ricordiamo che dal verbo “merere” derivano alcune parole di uso comune quali “meritare”, “merito”, “emerito” e… “meretrice”. Quest’ultimo vocabolo è il latino “meretrice(m)” e propriamente vale “colei che merita un compenso”, “che si fa pagare”, “che guadagna” (per le sue prestazioni). Da quest’ultimo termine discende, inoltre, l’aggettivo e sostantivo “meretricio”, con il plurale, si badi bene, ‘meretrici’ per il maschile e ‘meretricie’ per il femminile. Questa distinzione di plurali vale – ci sembra superfluo chiarirlo – solo quando il vocabolo è in funzione aggettivale.



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“Su qui e su qua...”. Tutti ricorderanno la canzoncina scolastica: su qui e su qua l’accento non va, su lí e su là l’accento ci va. Pochi, crediamo, ricorderanno la ragione. Ci permettiamo di rinfrescare loro la memoria, anche perché ci capita sovente di leggere sulla stampa gli avverbi di luogo “qui” e “qua” con tanto di accento. Una regola grammaticale stabilisce, dunque, che i monosillabi composti con una vocale e una consonante non vanno mai accentati, salvo nei casi in cui si può creare “confusione” con altri monosillabi ma di significato diverso come nel caso, appunto degli avverbi di luogo “ lí ” e “là” che, se non accentati, potrebbero confondersi con “li” e “la”, rispettivamente pronome e articolo-pronome. Un’altra legge grammaticale stabilisce, invece, l’obbligatorietà dell’accento quando nel monosillabo sono presenti due vocali di cui la seconda tonica: piú; giú; ciò; già ecc. Dovremmo scrivere, quindi, quí e quà (con tanto di accento). A questo proposito occorre osservare, però, che la vocale “u” quando è preceduta dalla consonante “q” fa da “serva” a quest’ultima; in altre parole la “u”, in questo caso, non è piú considerata una vocale ma parte integrante della consonante “q”. Si ha, per tanto, qui e qua senza accento perché – per la “legge” sopra citata – i monosillabi formati con una consonante e una vocale “respingono” l’accento grafico (scritto): me; te; no; lo; qui; qua.

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La parola proposta da questo portale e non a lemma nella quasi totalità dei vocabolari dell'uso: gaetone. Sostantivo maschile con il quale si designa il turno di guardia della durata di due ore.



                                          




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