sabato 15 luglio 2017

Anti-italiano? No, antitaliano (o antiitaliano)

Riproponiamo un nostro vecchio intervento sul corretto uso del prefisso perché - come potete vedere - la stampa continua a disattendere - per "snobismo" o per ignoranza? - le norme che lo riguardano:  "Proposta fuori dalle regole". La replica: "Ha pregiudizio anti-italiano"

Pregiatissimo Direttore, visto che il suo “blog” è interamente dedicato ai problemi del nostro bell’idioma, mi permetta di scrivere questa lettera aperta indirizzata a tutti coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere.

Mi presento. Sono il prefisso Ante e la mia funzione l’ “annuncia” la stessa parola: ‘fissato prima’. Il prefisso, dunque, come dicono i miei biografi, vale a dire i grammatici, è ciascuna di quelle parolette, solitamente avverbi o preposizioni, che si mettono prima (dal latino “prae”, innanzi e “fixus”, fissato) della radice di una parola per modificarne tutto o in parte il significato. Io, quindi, sono una parolina che modifica il significato di un vocabolo e in quanto tale discendo – come quasi tutti i prefissi – dal greco o dal latino. Io, in particolare, posso vantare una doppia “cittadinanza linguistica” nel senso che, secondo i vocaboli che modifico, posso essere ora latino ora greco.

Sono latino, Ante, quando assumo il significato di “prima”, “avanti” e modifico la parola in senso temporale o spaziale: anteguerra (“prima” della guerra); anteposto (posto “prima”). Godo della cittadinanza ellenica, Anti (non Ante), quando acquisisco il significato di “contro” o “di fronte” e modifico la parola alla quale sono premesso in senso, diciamo “battagliero”: antidroga (“contro” la droga); anticostituzionale (“contro” la costituzione). La cittadinanza greca (antì) è quella che preferisco, per la verità, in quanto mi offre la possibilità di sbizzarrirmi con un numero di parole pressoché illimitato. Dimenticavo di dire, però, che non debbo essere confuso con il latino “ante” il quale, in alcune parole, per “legge linguistica” muta la desinenza “e” in “i”: antibagno, anticamera. Per essere estremamente chiari, insomma, quando acquisisco la cittadinanza greca sono sempre Anti: anticomunista (“contro” il comunismo); allorché assumo la cittadinanza latina posso essere ora Ante ora Anti: antefatto (“prima” del fatto); anticamera (“prima” della camera).

Ciò che mi preme sottoporre alla vostra attenzione, gentili amici, ed ecco il motivo della lettera aperta, è il fatto che non gradisco essere attaccato alla parola che precedo tramite il trattino. La cosa mi manda letteralmente in bestia. Il prefisso, qualunque prefisso, si unisce direttamente alla parola. Coloro che scrivono anti-inflazione, per esempio, dovrebbero scrivere, per coerenza linguistico-ortografica, “ante-nato”; “anti-patia”; “anti-papa”. Non vi pare? Pedanteria? No, semplice ragionamento.

E sempre a proposito del mio uso corretto – e dell’uso del prefisso in genere – mi piace ricordare a coloro che, come me amano la lingua, che mi manderanno in visibilio se avranno l’accortezza di ricorrere alla crasi ogni volta che ciò è possibile. Ma cos’è questa crasi? Molti, forse, sentono questo termine per la prima volta. La crasi, dunque, è la fusione di due parole in una, in modo che l’ultima vocale della prima parola si unisca alla prima dell’altra; è, in parole povere, la fusione di due suoni vocalici in uno: medievale per medioevale; fuoruscito per fuoriuscito. Negli esempi sopra citati la vocale “o” di medio si è fusa con la vocale “e” di evo; la “i” di fuori si è fusa con la “u” di uscito. Tutte le persone che intendono rispettare le norme grammaticali devono attenersi alla crasi, come raccomandano i maggiori glottologi.. Scrivete, dunque, antitaliano, non “antiitaliano” o, peggio ancora “anti-italiano”. Lo stesso discorso vale anche per i miei colleghi prefissi che preferiscono la crasi là ove è possibile: filoisraeliano è meno elegante della forma “crasica” filisraeliano; filindiano è più bello di filoindiano. La crasi, insomma, dà ai vostri scritti un tocco di classe. E io alla classe ci tengo.

Ringraziandovi sentitamente della vostra cortese attenzione, vi porgo i miei più cordiali saluti. Il vostro amico

Ante

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Gentili amiche e cortesi amici, sedetevi comodamente in poltrona e procuratevi un cardiotonico (ne avrete senz'altro bisogno) prima di aprire il collegamento che vi segnaliamo.



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Per la serie "la lingua biforcuta..."




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 Forse è il caso di "ricordare" ai titolisti che Sabaudia è una cittadina del litorale pontino (Latina), non romano.
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L'orrore geografico è stato emendato. Che i redattori si siano imbattuti in questo sito?

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Sempre sulla "lingua biforcuta della stampa"

Centocelle, in fiamme un autodemolitore 
nube nera sul quartiere e 3 feriti

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Correttamente: Un'autodemolizione


Dal Treccani (non da chi scrive):
autodemolizióne s. f. [comp. di auto-2 e demolizione]. – Propr., demolizione di autoveicoli (vecchi o inservibili); comunem. il termine viene usato, per lo più al plur., per indicare officine o centri che provvedono alla raccolta e alla demolizione (con eventuale riutilizzazione delle parti ancora valide) di autoveicoli in disuso.

autodemolitóre s. m. [tratto da autodemolizione]. – Chi esercita il mestiere, o comunque opera nel settore di attività dell’autodemolizione.

Ma non finisce qui. Sempre lo stesso quotidiano scrive: È la terza volta che uno sfasciacarrozze, nell'ultimo mese e mezzo, prende fuoco [...]. Speriamo che il poveretto non abbia riportato gravi ustioni.

Sempre dal Treccani:
fasciacarròzze s. m. e f. [comp. di sfasciare2 e carrozza], invar. – Nell’Italia centr., chi acquista autoveicoli fuori uso per demolirli e rivenderne i rottami e le parti ancora utilizzabili come pezzi di ricambio; equivale a demolitore di auto o autodemolitore.


Ancora:

 Nonostante il tetto ai compensi introdotto nel 2014 lo stipendio dei mandarini italiani è superato solo dagli australiani. Intanto una pioggia di ricorsi blocca la pubblicazione dei patrimoni.

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In lingua italiana il termine "mandarino" - come fa notare il Treccani - è adoperato per lo più in senso spregiativo.

 mandarino1 s. m. e agg. [dal port. mandarim, alteraz. del malese mantri, a sua volta dal sanscr. mantrin- «consigliere»]. – 1. s. m. a. Termine usato un tempo dagli stranieri per designare i funzionarî civili e militari dell’Impero cinese: la casta dei mandarini. b. Per estens., con riferimento ad altri paesi e in senso per lo più spreg., personaggio potente e influente, e in partic. alto funzionario che vorrebbe conservare e far valere a ogni costo i privilegi più esclusivi della sua carica. 2. agg. Lingua mandarina, espressione con cui era indicato il principale dialetto della Cina, parlato a Pechino e in gran parte del paese; durante l’Impero fu lingua burocratica e letteraria, usata dalla corte e dai mandarini.



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AVVISO



Nei mesi di luglio e agosto, per motivi non dipendenti dalla nostra volontà, questo portale sarà "aggiornato" saltuariamente. Ci scusiamo con le amiche e con gli amici che seguono con assiduità le nostre modeste noterelle e auguriamo loro una serena estate.

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