venerdì 30 settembre 2016

Far la vita da sibarita


«Alzati, signorino, ti ho trovato un'occupazione: da ora in poi i divertimenti e il lusso - se ti sarà possibile - te li pagherai con i tuoi soldi; hai finito, finalmente, di poltrire tutta la mattina e di darti alla bella vita la sera. Dopo una giornata di lavoro  non so se avrai ancora la voglia di darti alla vita notturna, ma soprattutto non so se avrai la possibilità di "far la vita da sibarita"», tuonò il padre di Antonio. Quest'ultimo, ancora insonnolito e "stanco" della notte trascorsa fuori casa, lí per lí non capí cosa intendesse dire il padre con l'espressione "far la vita da sibarita". Non ci volle molto tempo, però, perché "afferrasse" il significato: i soldi non gli sarebbero bastati per condurre un'esistenza sfarzosa cui l'aveva abituato - diseducandolo - il genitore. Antonio, insomma, era stato il classico "figlio di papà". Ora, però, il padre aveva capito di avere sbagliato nell'educazione del figlio e quest'ultimo capí - come per incanto - il significato dell'espressione adoperata dal padre: condurre una vita sfarzosa. La locuzione trae origine dal fatto che gli abitanti dell'antica città di Sibari, ubicata nei pressi del golfo di Taranto, erano soliti condurre una vita piena di lusso, di fasto e di... comodi. La città, fiorentissima, venne distrutta - sembra - nel 510 a.C.
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Ancora un vocabolo "snobbato" dai comuni  dizionari sebbene di "origine" aulica: insonte.  Aggettivo che sta per "innocente", "che non fa male", "innocuo" e simili. Lo registra il Tommaseo-Bellini.



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PAROLE RITROVATE: TWEET
In inglese sta per “cinguettio” ed è una voce onomatopeica, come il nostro cip cip; oggi identifica i messaggi con cui si comunica su un noto social network. Più brevi dei lanci di agenzia, corredati da simboli impossibili da decifrare per i non addetti, i tweet sono la nuova frontiera della comunicazione: poco spazio per dirsi le cose, poco tempo per dirle. Insomma, poco di tutto. Spesso, purtroppo, anche poco da dire.

 (a cura di Alessandro Masi, dal supplemento Sette del Corriere della Sera)

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Non è possibile che il Prof. Alessandro Masi, segretario generale della "Dante Alighieri", non sappia che il verbo corredare si costruisce correttamente con la preposizione "di".


giovedì 29 settembre 2016

Proferire e... profferire

Due parole, due, sul verbo "proferire" perché alcuni ritengono che si possa scrivere anche con due "f" (profferire) e i vocabolari, in proposito, non sono di aiuto (anzi, molto spesso confondono le idee). Il verbo in questione, dunque, sí, si può scrivere con una o due "f", ma cambiando di grafia cambia anche di significato. Con una sola "f", proferire, sta per "dire", "esclamare", "pronunciare" e simili: Giuseppe non proferí parola (non disse, cioè, una parola). Con due, profferire, significa "offrire", "regalare", "mettersi a disposizione" (di qualcuno): Pasquale gli profferí il suo aiuto (si mise a sua disposizione per aiutarlo).
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La parola che proponiamo, attestata solo nel GDU (De Mauro) - se non cadiamo in errore - è polilogia (e sta per "loquacità eccessiva"). Il Tommaseo-Bellini, però, dà un'altra "versione".

martedì 27 settembre 2016

Quattrenne? Non fa una grinza

Cortese dott. Raso,
 un bambino di quattro anni si può definire "quattrenne"? L'insegnante di mio figlio (scuola media) lo ha definito un errore. Per costei la sola forma corretta è un "bambino di quattro anni". È proprio errato? Può dirmi qualcosa in proposito? Seguo sempre il suo meraviglioso blog e ho scaricato dalla rete il suo altrettanto meraviglioso libro "Un tesoro di lingua". Grazie se avrò una risposta.
 Cordialmente.
 Antonio C.
 Cagliari
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Gentile Antonio, no, non è affatto errato, anche se di uso non comune; non tutti i vocabolari, infatti, lo attestano. È un aggettivo (ma anche sostantivo maschile e femminile) composto con "quattro" e il suffisso "-enne" (dal latino "ennem", da "annus") e significa, per l'appunto, "che ha quattro anni di età".  In proposito la rimando a un "verdetto" della Crusca.

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La parola proposta, anche se desueta, è scarcaglioso. Si veda anche qui.


lunedì 26 settembre 2016

Chi giocava in giardino?




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Chi giocava in giardino? La figlia o la donna? Ecco un caso di ambiguità che la "buona" stampa dovrebbe evitare. A questo proposito riproponiamo un nostro vecchio articolo.

Qualche domenica fa decidemmo, con la famiglia, di trascorrere una giornata lontani dalla vita caotica della città e, saliti in auto, ci dirigemmo verso i famosi castelli romani. Giunta l’ora di pranzo, girovagando per una cittadina di cui ci sfugge il nome, ci lasciammo guidare da un buonissimo odore di arrosto che profumava l’aria riuscendo, cosí, a trovare un locale per “rifocillarci”.

Appena varcata la soglia la nostra attenzione fu attirata da un vistoso cartello che faceva bella mostra di sé: “Salsicce casarecce fatte con le mie mani di porco”. Uscimmo disgustati: non avevamo intenzione alcuna di mangiare delle salsicce fatte e cucinate da un... maiale! È evidente che nel redigere il cartello era stato invertito l’ordine delle parole.

Quest’inversione viene chiamata dai grammatici “anfibologia” (dal greco: significa discorso ambiguo e non ha nulla che vedere con gli... anfibi) perché la mal collocazione delle parole può dare adito ad ambiguità. Coloro che cadono maggiormente nel trabocchetto dell’anfibologia sono proprio quelli che, per mestiere, dovrebbero usare la massima chiarezza perché divulgano quotidianamente la lingua: gli “addetti ai lavori” del mondo della carta stampata e no.

Ci capita sovente, infatti, di leggere nel corso di un articolo, frasi del tipo “dopo il pauroso incidente il signor Pasquali è uscito dall’automobile che sanguinava”. Fatta la dovuta analisi “logica” della proposizione risulta evidente che l’automobile grondava sangue e Pasquali, bontà sua, caricatala sulle spalle l’ha portata di corsa al pronto soccorso. Invitiamo, per tanto, tutti coloro che amano il bello scrivere (e quindi la semplicità e la chiarezza) a non cadere nell’anfibologia come fanno molto spesso, ahinoi, lo ripetiamo, i “comunicatori” del mondo dell’informazione.

La cattiva collocazione delle parole, infatti, oltre a creare ambiguità, molto spesso dà anche una connotazione ridicola alla frase. Poiché l’argomento ci sembra della massima importanza facciamo un altro esempio di anfibologia affinché chi ci segue abbia ben chiaro il concetto.

Fino a poco tempo fa, se non cadiamo in errore, i medicinali dati in omaggio ai medici recavano questa scritta: campione gratuito per medici di cui è vietata la vendita. Era vietata la vendita dei medici o dei campioni?

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I redattori del giornale hanno letto le nostre noterelle? Il titolo è stato modificato.

 

domenica 25 settembre 2016

È proprio una salamistra!


La parola proposta da "unaparolaalgiorno.it": apprensivo.
E quella segnalata da questo portale perché non a lemma nei vocabolari dell'uso: salamistra. Si dice di donna saccente, che sa tutto lei, che vuol fare la "professora" ma... Si veda anche qui.

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Per la serie "la lingua biforcuta della stampa":


L’allarme di Cna e Acer: il 60% degli edifici non rispetta le norme sulla sicurezza. Aperta inchiesta

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Non vorremmo cadere in errore, ma le persone non rispettano le norme, non le cose. Il titolo corretto, a nostro avviso, avrebbe dovuto recitare: «... non in regola con le norme...»

 

venerdì 23 settembre 2016

L'idromilo e l'anemomilo

Perché i vocabolaristi non rimettono a lemma questi due vocaboli di origine classica con i quali si indicano, rispettivamente, il mulino ad acqua e quello a vento? Si veda qui e qui.

giovedì 22 settembre 2016

Una bella revalenta

Pregiatissimo dott. Raso,
 ho scaricato da Internet il suo prezioso libro "Un tesoro di lingua": superlativo! Ne approfitto per un quesito. Sfogliando un vecchissimo libro trovato mentre "rovistavo" nella soffitta  mi sono imbattuto in un termine mai sentito e "sconosciuto" anche ai vocabolari che ho consultato: revalenta. Le riporto la frase in cui compare il termine in questione: «Caro amico, suo figlio ha bisogno di una bella revalenta». Che lei sappia esiste questo vocabolo? E che cosa significa? Grazie se prenderà in considerazione la mia richiesta. In attesa la saluto cordialmente.
 Stefano G.
Macerata
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Gentile amico, grazie di cuore per il suo "superlativo!". Sí, il vocabolo esiste, anche se non a lemma nei vocabolari e indica un alimento a base di farina di lenticchie. Lo riporta solo il vocabolario di Ottorino Pianigiani.
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Per la serie "la lingua biforcuta della stampa":
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I titolisti del giornale in rete dovrebbero sapere che ci si incontra con qualcuno, non con qualcosa (Coni). Leggiamo dal vocabolario Gabrielli:
 incontro1
[in-cón-tro]
s.m.

1 Azione e risultato dell'incontrare o dell'incontrarsi con qualcuno: fu un i. casuale; è stato un i. piacevole
|| raro Ciò che si incontra
|| Fare un brutto incontro, imbattersi in un malintenzionato o in una persona sgradita

2 Riunione, convegno, raduno: un i. al vertice; l'i. annuale dei soci del circolo
|| Appuntamento: ritardare all'i.





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Dallo stesso giornale:


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Toglieranno quell'intrusa "i"?
 
 

 

mercoledì 21 settembre 2016

Metereologia? Per carità! meteorologia


Roma, rinviata al 22 l'inaugurazione della scalinata di Trinità dei Monti
L'evento è stato spostato  a causa delle avverse condizioni metereologiche
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Abbiamo segnalato ai responsabili titolisti di un quotidiano in rete lo strafalcione che abbiamo evidenziato. La grafia corretta è, naturalmente, meteorologiche. Apporteranno l'emendamento? Siamo scettici, in proposito.
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Ancora un termine snobbato da tutti (?) i vocabolari: rupografia (o ripografia). Sostantivo femminile del "gergo pittorico". Indica la riproduzione pittorica, appunto, di oggetti sudici, squallidi, volgari. È composto con le voci greche "rupo-" (sporcizia, immondizia, "oscenità" e simili) e "grafia".

martedì 20 settembre 2016

Sobrio: soberrimo o sobrissimo?

 Il superlativo assoluto di sobrio: soberrimo o sobrissimo?
Vittorio Coletti (Crusca) dissipa il dubbio.

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Il nostro libro, "Un tesoro di lingua", accontentiamo cosí molti nostri cortesi lettori, si può leggere e scaricare cliccando su questo collegamento.

lunedì 19 settembre 2016

Che polmento!

Ancora un vocabolo da "recuperare" e da rimettere a lemma nei vocabolari perché aulico: polmento. Sostantivo maschile tratto dal latino "pulmentum" (pietanza e simili). Indica una sorta di minestra grossolana o il companatico che un tempo - come apprendiamo dal Tommaseo-Bellini - si dava ai monaci. Il termine, se non cadiamo in errore, si trova soltanto nel vocabolario del Palazzi.
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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": spreco.

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Il nostro libro, "Un tesoro di lingua", accontentiamo cosí molti nostri cortesi lettori, si può leggere e scaricare cliccando su questo collegamento.

domenica 18 settembre 2016

Far venire il latte alle ginocchia


Se una persona è irrimediabilmente noiosa o sciocca e i suoi discorsi ci tediano oltre misura è probabile che, se non altro dentro di noi, commentiamo: “Fa proprio scendere il latte alle ginocchia!” Si tratta di uno di quei classici modi di dire che si tramandano di padre in figlio ma di cui, se ci fermiamo un momento a pensarci, ci sfugge completamente l’origine e, quindi, il significato iniziale. Qualche aiuto ce lo può dare il solito latino, che indicava con “lactes” i visceri (e in particolare la trippa), forse per il colore lattiginoso che alcuni di essi possono avere: ecco, allora, che l’immagine dei visceri che, per stanchezza, si srotolano, allungandosi e distendendosi fino a toccarci le ginocchia, può anche suggerire un rilassamento e una noia mortali
                                          (Enzo La Stella)

sabato 17 settembre 2016

Il pànico e il paníco

Ecco un sostantivo che muta di significato (e di plurale) a seconda della posizione dell'accento: panico. Quando quest'ultimo cade sulla "a" (pànico) il termine sta per "paura", "terrore" e simili e nel plurale muta la "o" in "i": panici. Se l'accento cade, invece, sulla "i" (paníco) il vocabolo indica il "becchime per uccelli da gabbia" e nella forma plurale prende la desinenza "-chi": paníchi. Per la "provenienza etimologica" si veda qui e qui.

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La parola proposta da "unaparolaalgiorno.it": cireneo.

venerdì 16 settembre 2016

È una catapecchia

Dallo Zingarelli:
La parola di oggi è: catapecchia / stamberga
 
SILLABAZIONE: ca–ta–péc–chiaSINONIMI
catapécchia /http://dizionari.zanichelli.it/pdg_media/audio.jpg kataˈpekkja/
[etim. incerta 1532]
s. f.
1 casa estremamente misera e cadente: vive in una catapecchia
2 luogo selvaggio e disabitato

SILLABAZIONE: stam–bèr–gaSINONIMI
stambèrga /http://dizionari.zanichelli.it/pdg_media/audio.jpg stamˈbɛrɡa/
[dal longob. stainberga casa (berga) di pietra (stain) av. 1573]
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Per lo Zingarelli l'etimologia di catapecchia è incerta. Non lo è, invece, per il Pianigiani.

mercoledì 14 settembre 2016

Il "pericolo di vivere"

Riproponiamo un nostro vecchio articolo perché continuiamo a leggere sulla stampa (e a sentire nei notiziari radiotelevisivi) uno strafalcione che, se non fosse tragico, ci farebbe ridere: pericolo di vita.
I lettori che ci seguono con assiduità sanno benissimo che nelle nostre noterelle grammaticali o linguistiche non risparmiamo colpi a nessuno, “grandi firme” comprese, quando notiamo che ciò che scrivono cozza contro le leggi grammaticali o il “buon senso linguistico”. La carta stampata ci ha abituato ormai, e da tempo immemorabile, a leggere delle madornali marronate, ma noi non ci stiamo e le denunciamo. Giorni fa, un quotidiano locale (che non citiamo per amor di patria) riferiva, nella cronaca cittadina, di un incidente automobilistico in cui le persone coinvolte erano tutte all'ospedale civico “in pericolo di vita”. Se fossimo al posto di quei poveretti faremmo tutti gli scongiuri possibili e immaginabili: il cronista – stando al “buon senso linguistico” – ha scritto che sussiste “il pericolo che possano vivere”, quindi, “debbono morire”. Ci spieghiamo meglio. “Pericolo di vita” – se si conosce un pochino la madre lingua – significa “possibilità di sopravvivenza”; il “rischio”, dunque, sta nel fatto che si possa vivere. Si deve dire correttamente, quindi, “pericolo di morte”, non “di vita”. Il pericolo sta nel fatto che si muoia, non che si viva. Sui tralicci dell'alta tensione i cartelli che avvertono del pericolo recitano, infatti, “pericolo di morte”, non “pericolo di vita”. O siamo in errore?
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Mettere (qualcuno) tra l'uscio e il muro
 
Ecco un altro modo di dire poco conosciuto e, quindi, poco adoperato. Ma che cosa vuol dire? Costringere qualcuno a venire allo scoperto, a manifestare le sue vere intenzioni, a rivelare i suoi pensieri "nascosti". La locuzione si rifà all'immagine di una persona nascosta dietro una porta che, progressivamente, viene spinta e stretta fra il muro (la parete) e l'anta; cosí facendo è costretta a spostarsi e, quindi, a... mostrarsi.

martedì 13 settembre 2016

Mastrina

Ecco una parola - a nostro avviso - da rispolverare e rimettere a lemma nei vocabolari: mastrina. Sorta di grande cassa dove si lavora il tabacco per raffinarlo.

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La parola, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": compagine.

lunedì 12 settembre 2016

La paradiastole

Molti lettori, probabilmente, sentiranno questo termine per la prima volta perché è snobbato dai sacri testi grammaticali (quelli in nostro possesso, per lo meno). La paradiastole, dunque, è una particolare figura retorica che consiste nello scegliere, scrivendo o parlando, termini piú appropriati alla bisogna. I nostri scritti e i nostri discorsi, insomma, saranno sempre piú aulici se "metteremo in campo" questa figura.
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Navigando in Rete ci siamo imbattuti in questo titolo di un quotidiano che fa... "opinione". Non lo commentiamo, lasciamo ai nostri cortesi lettori stabilire se è in regola con le... regole grammaticali (e logiche). Stabilire, insomma, se è corretto o no.

AAA cercasi professori. Tutti in classe
ma  1.500 cattedre sono ancora vuote


 

domenica 11 settembre 2016

L'egròto e l'affiatato


La parola segnalata da questo portale: egroto. Si veda anche qui.
E quella, di ieri, proposta da "unaparolaalgiorno.it": affiatato.

venerdì 9 settembre 2016

C'è nipote e nipote...

Un interessantissimo articolo di Paolo D'Achille (Crusca) sulla "nepotanza".
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Ritenersi figlio della gallina bianca
Ecco un modo di dire, forse poco conosciuto e, quindi, poco adoperato. Si dice di persona che crede di essere speciale, unica, e di avere diritto a tutti i privilegi per il solo fatto di stare al mondo. La locuzione fa riferimento al tempo in cui una gallina tutta bianca - diversa geneticamente - e piú grande delle altre era la prediletta e piú pregiata di tutto il pollaio.

giovedì 8 settembre 2016

Parole macedonia

Pregiatissimo dott. Raso,
sono un suo affezionato e fedele lettore fin da quando ho "scoperto" il suo prezioso blog, ricco di "perle preziose per conoscere, conservare e usare al meglio l'italiano", come recita il sottotitolo  del suo altrettanto prezioso libro "Un tesoro di lingua" (che ho scaricato dalla rete). Le scrivo perché mi sono imbattuto in un'espressione che non avevo mai sentito, "parole macedonia";  vorrei sapere, quindi, l'esatto significato di detta espressione e in quale ambito viene adoperata. Certo di una sua sollecita e cortese risposta, la ringrazio anticipatamente e le rinnovo i miei complimenti per il suo impareggiabile lavoro.
Corrado S.
Altavilla Vicentina
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Gentilissimo Corrado, la ringrazio per le sue belle parole che ha voluto dedicarmi e le faccio "rispondere" da persone molto piú autorevoli, in campo linguistico, del sottoscritto. Clicchi qui.

mercoledì 7 settembre 2016

È proprio una facimola!


Facimola, ecco una parola  che ci piacerebbe fosse rimessa  a lemma nei vocabolari perché aulica. Sostantivo femminile che sta per  stregoneria, fattura, malia, fattucchieria e simili. Si veda anche qui.

martedì 6 settembre 2016

Due parole su "stesso" e "medesimo"

 Alcune grammatiche (tutte?) ritengono non necessario accentare il pronome "sé" quando è seguito da stesso o medesimo ( se stesso; se medesimo) perché non si può confondere con il 'se' congiunzione. Motivazione illogica e "pretestuosa": stabilito che il pronome personale "sé" si accenta, non si capisce per quale motivo dovrebbe perdere il segno grafico quando è seguito dai su citati aggettivi. Queste grammatiche dovrebbero specificare, invece, che stesso e medesimo si possono adoperare con il significato di "anche", "perfino" e simili e si pongono, generalmente, dopo il nome: il padre stesso (perfino il padre) denunciò il figlio all'autorità giudiziaria.

lunedì 5 settembre 2016

Altro che o altroché? Dipende...

Tutti  i vocabolari che abbiamo consultato "sostengono"  l'intercambiabilità grafica dell'avverbio altroché: altroché o altro che. A nostro modestissimo parere andrebbe fatto un distinguo in quanto l'avverbio su detto cambia di significato a seconda della grafia. La scrizione univerbata, altroché, andrebbe adoperata quando l’avverbio in questione ha il valore di esclamazione affermativa con il significato, per l'appunto, di sicuramente, senza dubbio, certamente ecc.: ti è piaciuto il film? Altroché! La grafia analitica (scissa, separata), altro che, si dovrebbe usare, invece, allorché la locuzione indica una preferenza o un'esclusione rispetto a qualcos'altro: occorrono prove certe, altro che supposizioni. Da evitare assolutamente la grafia altrocché (con due 'c') perché errata. L'aggettivo altro non determina geminazione (raddoppiamento della consonante).