venerdì 31 maggio 2013

Il cacaloro

Tra le parole morte, che ci piacerebbe fossero riesumate, ne segnaliamo una dall' «odore» un po' volgare, ma appropriatissima per designare la persona che ostenta molte ricchezze: cacaloro.

Vocabolario della lingua italiana: per uso delle scuole - Pagina 238

http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=cacaloro&searchfor=cacaloro&searching=true

giovedì 30 maggio 2013

La «stranità»






Gentilissimo e paziente dott. Raso,
la ringrazio vivamente per la tempestiva risposta alla domanda di ieri (sitofobia). Oggi ho un altro quesito da sottoporre alla sua attenzione: esiste il sostantivo “stranità”? L’insegnante di mio figlio ha corretto “stranità” in “stranezza”. Ho cercato il termine in tutti i vocabolari in mio possesso: nulla. Il vocabolo non esisterebbe.
Secondo lei, “stranità” è proprio da matita blu?

Grazie in anticipo
Cordialmente
Costantino C.
Carbonia

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Cortese amico, l’insegnante di suo figlio ha ragione, il termine non è a lemma in nessun vocabolario dell’uso. Personalmente, però, e a costo di attirarmi gli strali di qualche linguista, non mi sento di condannare “stranità” (si potrebbe considerare un neologismo lessicale) essendo un vocabolo formato con l’aggettivo “strano” e il suffisso “-ità”, che, cito dal Treccani, è un «suffisso derivativo di nomi astratti tratti da aggettivi. La forma che ha subito la sincope è limitata ad alcune voci tradizionali con temi che terminano in l, n, (bontà, umiltà); più diffusa e ancora vitale oggi è la forma -ità: attività, brevità, capacità, felicità, umanità. Le varianti antiche sono -tate, -tade, da cui quelle moderne sono sorte per apocope».
 Se da “breve” abbiamo “brevità”, dunque, non vedo perché non si possa avere “stranità” da “strano”. Per curiosità ho fatto un “giro” in rete. La voce “stranità” è immortalata in alcune pubblicazioni.

https://www.google.it/search?q=%22stranit%C3%A0%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it

PS.: Da breve, per analogia con stranezza, si potrebbe avere "brevezza" (anche questo termine immortalato in alcune pubblicazioni).


mercoledì 29 maggio 2013

La sitofobia

Gentilissimo dott. Raso,
eccomi ancora una volta a disturbarla per un altro quesito. Un mio lontano parente, da molto tempo ormai, si rifiuta ostinatamente di mangiare, quasi avesse paura del cibo. Ha una specie di fobia per il cibo, insomma. Per alcuni sarebbe affetto da una vera e propria malattia. Questa “malattia” esiste e ha un nome?

Grato della sua attenzione, la ringrazio e la saluto cordialmente.
Costantino C.
Carbonia

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Cortese amico, non essendo un medico non sono in grado di dirle se si tratti di una “malattia”. Esiste, comunque, una sorta di ripugnanza per il cibo, che prende il nome di “sitofobia” e coloro che ne sono vittime si chiamano “sitofobici”. In proposito le faccio “rispondere” dal Treccani.





Sitofobia



Enciclopedia Italiana


SITOFOBIA (dal gr. σῖτος "frumento, cibo" e ϕόβος "paura"). - Sintoma psicopatico che consiste nel rifiuto ostinato del cibo. Ha diverso meccanismo a seconda delle diverse malattie mentali. Nei melanconici, che più di tutti lo presentano, deriva da invincibile ripugnanza o, più raramente, da un proposito di suicidio per inanizione o da un delirio d'indegnità


Leggi tutto


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Tra le parole che ci piacerebbe fossero riesumate e messe di nuovo a lemma nei vocabolari segnaliamo il sostantivo femminile "sapròte". Il termine, sinonimo di alitosi, significa, infatti, "alito cattivo".
Non è piú elegante dire a una persona, per esempio, «hai un po' di sapròte» anziché hai l'alito cattivo o l'alitosi?

Dizionario della lingua italiana - Volume 3 - Pagina 216

Dizionario universale della lingua italiana, ed insieme di ... - Volume 6 - Pagina 658

martedì 28 maggio 2013

Il ballottaggio

Con “ballottaggio”, termine attualissimo, si intende, e citiamo dal vocabolario “Treccani”, la «seconda votazione, che si fa quando nella prima nessuno dei candidati ha ottenuto la maggioranza richiesta, limitata ai due o più candidati che vi si sono maggiormente avvicinati».
Il nome dato a questa votazione potrebbe derivare – secondo Wikipedia - «dal fiorentino ballotta, sinonimo di castagna. Nella Firenze medievale, infatti, esisteva la Torre della Castagna, nella quale si riunivano i Priori delle Arti per decidere e votare riguardo alle tematiche più importanti. Queste votazioni si svolgevano in conclavi lunghi anche intere giornate senza influenze dall'esterno e nei quali il voto consisteva nel porre delle castagne in uno dei sacchetti che simboleggiavano le varie possibilità. Poi, in rapporto al numero dei votanti si stabiliva il sacchetto con più castagne e, di conseguenza, la decisione scelta per maggioranza. Da qui l'uso ancora attuale nelle elezioni di definire ballottaggio la scelta tra due o più candidati.
Più probabilmente il nome deriva dal sistema elettorale del doge di Venezia, che era costituito da una complessa successione di passaggi che alternava la determinazione diretta degli elettori del doge, e la loro nomina attraverso l'estrazione casuale di "ballotte", sfere dorate e argentate, che venivano utilizzate esclusivamente a tale scopo. Quando gli americani prima (nel 1776, a seguito della loro rivoluzione) e i francesi poi (nel 1789) dovettero dotarsi di un sistema elettorale, presero spunto da quello veneziano. Per questo ancora oggi l'elezione del presidente degli Stati Uniti d'America prevede l'utilizzo di "Grandi elettori", derivazione del sistema in uso nella Serenissima. Per lo stesso motivo l'urna elettorale, nei paesi anglofoni, è chiamata "ballot box", esattamente come la cassa delle ballotte utilizzata a Palazzo Ducale».



domenica 26 maggio 2013

"Z", semplice o doppia?



Cortese dott. Raso,
seguo con assiduità il suo meraviglioso blog, dal quale apprendo sempre “cose nuove” sul nostro bellissimo idioma. Ho deciso di ricorrere al suo aiuto perché mio figlio (prima media) scrive sempre tutte le parole con due “z”: direzzione, abbazzia, congiunzzione, azzione ecc. C’è una regola che stabilisca quando si deve usare una sola zeta e quando due?
Grazie della sua attenzione e dell’eventuale risposta.
Distinti saluti
Oreste B.
Imola
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Gentile Oreste, le parole che al loro interno contengono una “z” sono sempre causa di dubbi amletici, anche per i “grandi”. Si hanno due zeta (zz) davanti a una vocale semplice (pazzo) si ha una sola zeta (z), invece, davanti a due vocali: azione, abbazia. Le eccezioni sono quasi inesistenti: razzìa e pochissime parole derivate da altre che al loro interno ne contengono due, per la “regola” sopra citata: pazzia (da ‘pazzo’); corazziere (da ‘corazza’), razziale (rara, ma non errata, la grafia raziale). Un’altra “regola”, e questa riguarda anche la doppia “g”, stabilisce che tutte le parole che finiscono in “-ione” prendono una sola zeta (e una sola “g”): stazione, promozione (provvigione, stagione).

sabato 25 maggio 2013

Che marasma!

Due parole due sull’uso corretto di un sostantivo che molti – “gente di cultura” e no – adoperano impropriamente: marasma (o, raro, marasmo). Questo sostantivo di provenienza classica – il greco – alla lettera significa “grave indebolimento del corpo dovuto a malattia o vecchiaia” e, in senso figurato, “decadimento morale”. È, infatti, il greco “marasmòs”, derivato di “maràinein” (‘consumare’). Non è corretto adoperarlo, quindi, con uso figurato, nel senso di  “confusione”, “babilonia”, “caos” e simili. Alcuni vocabolari lo attestano anche con questi significati ma chi ama il bel parlare e il bello scrivere li… “snobbi”. Come si fa, infatti, a “consumare” una confusione? Naturalmente qualche linguista dissentirà. Ma tant’è.
Ottorino Pianigiani:

venerdì 24 maggio 2013

Amarrare e ammarare

Non si confondano questi due verbi, non sono sinonimi anche se entrambi sono del gergo marinaro. Il primo, con la variante "ammarrare", è transitivo  e significa "ormeggiare": il natante ha amarrato alle 15.00 in punto. Il secondo è intransitivo e si dice degli idrovolanti che si posano sull'acqua dopo il volo. Il primo, inoltre, è un francesismo, che in buona lingua è da evitare; il secondo, invece, è stato coniato sul modello di atterrare.

giovedì 23 maggio 2013

Scriviamo (e parliamo) italiano?

Scartabellando tra le nostre cose ci è capitato sotto gli occhi il Giornale di qualche anno fa in cui un titolo ha richiamato la nostra attenzione: «Scrivete straniero e sarete puniti».

L’articolista era Luciano Satta che in quel quotidiano era il titolare di un’interessantissima rubrica di lingua: «Non usate parole straniere perché le sbagliate o ve le sbagliano» (si riferiva, forse, alla scomparsa figura del correttore di bozze? NdR). «E quando le sbagliate la brutta figura è tutta vostra». Seguiva un elenco di vari incidenti nei quali sono incorsi, ultimamente, scrittori e giornalisti di grido: errori di traduzioni, lettere saltate, accenti errati e arbitrii sintattico-grammaticali. Mai parole furono più sante e attuali.
Oggi, con la rivoluzione tecnologica avvenuta nei giornali (ma non solo), i pezzi non vengono più composti (scritti) dai tipografi e inviati in correzione al vaglio di personale altamente qualificato (correttore di bozze); oggi gli articoli vengono composti al videoterminale dai giornalisti che sono gli unici responsabili degli eventuali strafalcioni; prima, con la composizione a piombo, l’ignoranza grammaticale del redattore era imputata all’ignoranza del correttore di bozze. Il progresso tecnologico sta mettendo a nudo molte verità nascoste. Ma torniamo ai barbarismi di cui trabocca la carta stampata e no.
Personalmente, e a costo di sembrare codini (reazionari), siamo per un reciso no alle parole straniere, non tanto per la brutta figura (di cui si preoccupa, bontà sua Luciano Satta), quanto e soprattutto perché il barbarismo che imperversa sulla stampa ha fatto dimenticare agli articolisti (e ai lettori, loro malgrado) il buon uso della lingua madre.
Una riprova lampante di quanto affermiamo è un titolo di un quotidiano locale (che non menzioniamo per carità di patria): «Tra pentiti e non». Quel non, maledettamente errato, balza evidente agli occhi del lettore accorto.
Gli avverbi di negazione no e non hanno usi nettamente distinti. Il primo (no) appartiene alla schiera delle così dette parole olofrastiche, dal greco ὁλος ("hòlos", intero) e φράζω ("phrazo", dichiaro), che, riassumendo in sé un’intera frase, debbono essere sempre isolate e in posizione accentata (non debbono essere seguite, cioè, da un’altra parola): vieni o no? È evidente, da questo esempio, il fatto che il no è olofrastico, sottintende e riassume o non vieni.
Il secondo avverbio (non) non si può trovare mai in posizione accentata (cioè da solo), si usa sempre come proclitico, vale a dire unito a una parola che necessariamente lo deve seguire: vieni o non vieni? Il titolo incriminato, per tanto, avrebbe dovuto recitare - in forma corretta - «Tra pentiti e no».
Moltissime penne sono convinte del fatto che l’uso di termini stranieri dia un tono ai loro scritti e li adoperano indiscriminatamente (a volte senza conoscerne il significato); assistiamo, così, a spettacoli linguistici orrendi. Tanto per cominciare, gentili amici, lo stranierese resta sempre singolare.
Abbiamo letto, in una cronaca sportiva, che «la squadra azzurra aveva molte chanches». Satta ha ragione da vendere, questo titolo è doppiamente errato: la grafia e la forma plurale del vocabolo barbaro. I critici cinematografici e televisivi amano scrivere ciack o ciak in luogo della forma corretta italiana ciac. Gli economisti scrivono crack per indicare un fallimento, un crollo bancario, invece dell’italianissimo crac.
Questi ultimi sbagliano doppiamente volendo adoperare un termine straniero al posto di quello italiano che fa tanto... volgare. La voce, infatti, non è inglese - come comunemente si crede - ma tedesca: Krach. Se non si vuole adoperare l’italiano crac si usi, almeno, il termine straniero corretto che è Krach, appunto. Questa voce si è diffusa in tutte le lingue europee - quindi anche in quella inglese - in seguito al crollo bancario avvenuto a Vienna il 9 maggio 1873.

Potremmo continuare ancora, ma non vogliamo tediarvi oltre misura.



Un manuale per risolvere i dubbi linguistico-grammaticali più frequenti. Pensato per i giornalisti e utile per tutti coloro che quotidianamente "combattono", per lavoro, con la lingua italiana. Edito da Gangemi, Roma.


Volume vincitore, per la manualistica, alla III edizione del premio letterario nazionale "L'Intruso in Costa Smeralda".


mercoledì 22 maggio 2013

Piuttosto che... Ma ci «facci» il favore!

    Un articolo di Silverio Novelli. Si clicchi su:  http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/scritto_e_parlato/piuttosto_che.html

Dissentiamo, però, sul genere di "asma", che può essere tanto maschile quanto femminile, come fa notare il Dizionario di Ortografia e di Pronunzia: http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=88482&r=26962

martedì 21 maggio 2013

La grammatica e l'orecchio


Vi sono persone, soprattutto tra le così dette grandi firme della carta stampata, che non ritengono necessario l’approfondimento (o lo studio) della grammatica della lingua italiana in quanto sono convinte di conoscerla bene per il semplice motivo che parlano e scrivono la lingua madre – come suol dirsi – per pratica. Esse fanno loro il detto popolare secondo il quale “la pratica uccide la grammatica”; al più, di fronte a perplessità ortografiche, ricorrono all’aiuto dell’orecchio, preziosissimo per comporre allegri motivetti con la chitarra o il pianoforte.

A costoro riteniamo utile ricordare quanto scrisse in proposito il poeta Giuseppe Giusti: “L’avere la lingua familiare sulle labbra non basta: senza accompagnare, senza rettificarne l’uso con lo studio e con la ragione è come uno strumento che si è trovato in casa e che non si sa maneggiare”. Mai parole furono più “sante”. Chi sa quante volte, infatti, a ognuno di noi sarà capitato, nel buttar giù le classiche quattro righe a un amico, di essere assalito da dubbi sull’esatta grafia delle parole e sulla loro giusta collocazione nel contesto della frase o del periodo. Vogliamo fare un esempio? Sognamo o sogniamo? Con o senza la “ i ”? Beneficerò o beneficierò? In casi del genere non c’è musica sacra o profana che faccia alla bisogna: l’orecchio non ci viene minimamente in aiuto. Allora, immobili, con la penna in mano (ora davanti al computer, si perdoni il barbarismo), presi dall’amletico dubbio malediciamo il giorno in cui buttammo (con presunzione) alle ortiche il vecchio e prezioso libro di grammatica…

Vediamo, quindi, di sciogliere, nell’ordine, questi dubbi; prima, però, a proposito di orecchio, sarà bene ricordare che ha due plurali, uno maschile e uno femminile e non sono “interscambiabili” non si adoperano, cioè, indifferentemente. Si usa il maschile per indicare l’organo dell’udito (mi fanno male “gli orecchi”); si adopera il femminile, invece, in seno figurato ( “le orecchie” del libro).

Sognamo o sogniamo, dunque? Sogniamo (con la “ i ” ), anche se, a suo tempo, imparammo che tra il digramma (unione di due lettere formanti un unico suono) “gn” e le vocali a, e, o , u non si inserisce la “ i ”: quindi scriveremo “sogno”, “regno”, “ognuno”, eccetera. La “ i ” di sogniamo è obbligatoria e si giustifica con il fatto che è parte integrante della desinenza “iamo” della prima persona plurale del presente indicativo, del presente congiuntivo e dell’imperativo. Tutti i verbi in “-gnare” (disegnare, insegnare, ecc. ma anche quelli in “-gnere” e “-gnire”) quindi, conservano la “ i ” ogni qualvolta detta vocale faccia parte della desinenza.

Beneficerò, senza la “ i ”. I verbi in “ciare” (come quelli in “giare”) perdono la “ i ” che pure è parte integrante del tema (o radice) davanti alle desinenze che cominciano con le vocali “e” o “ i ”. In questi casi, infatti, la “ i ” non è più necessaria per mantenere il suono palatale alla consonante “c” (o “g”). Scriveremo, dunque, “beneficeremo”, “mangeremo”, “comincerei”. Solita eccezione, “effigiare”: conserva la “ i ” in tutta la sua coniugazione.

Qualche osservazione ancora, visto che trattiamo un tema prettamente grammaticale, sui sostantivi composti con il prefisso “con-” (assieme). Contrariamente a quanto ci hanno abituato le “grandi firme” (e ci piacerebbe sapere chi stabilisce la “grandezza”) che si piccano di fare la lingua, il suddetto prefisso si unisce direttamente al nome. Occorre solo ricordare che la “n” cade davanti a parole che cominciano con vocale: coabitazione (non co-abitazione come, dicevamo, sono solite scrivere le grandi firme del giornalismo), mentre si trasforma in “m” davanti ai sostantivi che cominciano con le consonanti labiali “ p ” e “ b ”: “combelligerante”, “comprimario”; si assimila, invece, davanti a “ m ”, “ l ”, “ r ” (l’assimilazione è un particolare processo linguistico per cui nell’incontro di due consonanti la prima diventa uguale alla seconda) e avremo, quindi, “collaboratore”, “corresponsabile”, “commilitone” e via dicendo. A proposito, alcuni vocabolari ammettono la voce “coproduzione” e il suo composto ( “coproduttore” ). Non c’è alcun motivo che giustifichi la caduta della ‘n’ del prefisso “con-”. La voce corretta è e resta “comproduzione”. Lo stesso discorso per quanto riguarda “comprotagonista”, voce “più corretta” di “coprotagonista”.

Per concludere: il prefisso “co-” non esiste.







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domenica 19 maggio 2013

Stucchevole e stuccoso

Probabilmente faremo sobbalzare sulla sedia qualche “linguista d’assalto”, se si imbatterà in questo sito e leggerà quanto stiamo per scrivere. Vogliamo parlare di due aggettivi, uno variante dell’altro: stucchevole e stuccoso. Quest’ultimo di uso meno comune, per la verità (alcuni dizionari, infatti, non lo attestano). Entrambi gli aggettivi significano, dunque, “nauseante” e simili; si dice, infatti, di un cibo, che preso in quantità notevole provoca la nausea. Noi faremmo un distinguo. Adopereremmo il primo in senso proprio: ho mangiato un dolce stucchevole; il secondo, con uso figurato, nelle accezioni di “noioso”, “fastidioso”, “tedioso” e simili: Luigi aveva un modo di fare veramente stuccoso.


PS. Una rapida ricerca con Googlelibri ha dato: stucchevole 47.500 occorrenze; stuccoso 184.

Entrambi gli aggettivi sono deverbali derivando (Pianigiani) da:




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Egregio Sig. Raso,
come si chiamano gli abitanti di Antívari, il maggior porto del Montenegro, sulla costa adriatica?
Grazie e cordialità
Alessandro Q.
Molfetta
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Caro amico, in italiano la suddetta località si chiama Antibari; gli abitanti sono, quindi, antibaresi.

sabato 18 maggio 2013

«Essendo che...»



Buongiorno dott. Raso.
Mi hanno detto che "ESSENDO CHE" è una forma errata o stilisticamente sconsigliata.
Può darmi delle indicazioni in merito?
Grazie
(Firma)
Località non specificata

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Gentile amico, personalmente aborrisco da questa locuzione, anche se non è affatto errata.
Le faccio "rispondere" dalla Crusca: http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/essendo





giovedì 16 maggio 2013

Il bello scrivere




Molto spesso nello scrivere adoperiamo - probabilmente senza rendercene conto - parole generiche e “logorate”; è perciò buona norma fare un piccolo sforzo per ridurre al minimo questo “inconveniente” sostituendo i termini “logori” con altri, a volte meno comuni, ma anche piú efficaci e precisi nel significato. Sperando di non essere tacciati di pedanteria diamo alcuni esempi di parole facilmente sostituibili con altre, che fanno alla bisogna secondo il contesto.

Tra virgolette i termini piú appropriati: fare un’impresa, “compiere”; dare una notizia, “comunicare”; avere simpatia, “nutrire”; avere indosso, “indossare”; dare un incarico, “affidare”; fare un favore, “concedere”; avere un’automobile, “possedere”; dare un ceffone, “assestare”; fare un affare, “concludere”; dare in dono, “donare”; fare un regalo, “regalare”; fare un bel lavoro, “eseguire”; avere un messaggio, “ricevere”. Sono solo alcuni esempi che ci sono venuti alla mente, ma se ne potrebbero fare a iosa. Come si può vedere, la scelta delle parole, anche se viene spesso sottovalutata, o vissuta come una preoccupazione pedantesca, è estremamente importante perché dà ai nostri scritti un tocco di eleganza stilistica. Fine ultimo che dovrebbe stare a cuore a chi ama il bel parlare e il bello scrivere.

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Un interessantissimo articolo di Salvatore Claudio Sgroi, dell’Università di Catania, sulla “rianalisi” (linguistica).

Si clicchi su: http://www.treccani.it/enciclopedia/rianalisi_(Enciclopedia_dell'Italiano)/


mercoledì 15 maggio 2013

Strozzare e strangolare


A proposito di “strozzare” dell’intervento di ieri, due parole due proprio su strozzare e strangolare.

I vocabolari attestano i due verbi l’uno sinonimo dell’altro. A voler sottilizzare non è proprio cosí, anche se hanno lo stesso significato “fondamentale”: morire per asfissia. Colui che "strozza" usa le mani; chi "strangola", invece, serra il collo della vittima servendosi di un laccio o di qualche altro “strumento”. A questo punto vediamo ‘esattamente’ il significato di “sinonimia”.

Con il termine “sinonimia” si intende – in linguistica – una corrispondenza semantica di due o più parole, vale a dire una “somiglianza” di significato di due o più vocaboli. Alcuni, in proposito, sono convinti del fatto che “sinonimia” equivale a “identicità”. Così non è: non esistono in lingua italiana (ma neanche nelle lingue straniere) vocaboli che potremmo definire “gemelli”; c’è sempre una piccola sfumatura di significato.



martedì 14 maggio 2013

Condurre al talamo e contaminarlo

Tutti i nostri lettori coniugati hanno messo in pratica la prima espressione (condurre al talamo); pochi, ci auguriamo, la seconda (contaminarlo), anche se oggi i costumi sono profondamente cambiati. Perché si adoperano questi modi di dire? Perché il talamo (per l'origine del termine vedremo ciò che dice Ottorino Pianigiani) nell'antica Grecia indicava la camera da letto di una casa e, in seguito, per estensione la camera matrimoniale e lo stesso letto. Figuratamente, quindi, «condurre al talamo» significa 'sposare', 'prendere in matrimonio' e si riferisce particolarmente all'uomo nei confronti della donna. Colui che contamina il talamo, invece, commette (anzi: commetteva) adulterio, contaminando il letto (talamo) coniugale.



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Buongiorno, il dubbio che mi è sorto è se si può dire TALMENTE TANTO o è pleonastico?

Grazie e distinti saluti
(Firma)
Località omessa
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A mio avviso si può dire benissimo e non è pleonastico.  Talmente è un avverbio che sta per 'a tal punto', 'in modo tale', 'in maniera tale'. Sono talmente tanto stanco, per esempio, sta per "sono a tal punto tanto stanco".
"Talmente tanto" si trova in numerose pubblicazioni.

https://www.google.it/search?q=%22Talmente+tato%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it#q=%22Talmente+tanto%22&hl=it&tbm=bks&psj=1&ei=OQaRUf-8FInFPcGPgcgJ&start=0&sa=N&bav=on.2,or.r_cp.r_qf.&bvm=bv.46340616,d.ZWU&fp=fc696af4702f89fd&biw=1024&bih=638

E anche nei due maggiori quotidiani italiani:

https://www.google.it/#sclient=psy-ab&q=%22talmente+tanto%22:+ricerca.corriere.it&oq=%22talmente+tanto%22:+ricerca.corriere.it&gs_l=hp.12...79109.83796.2.87062.11.10.0.0.0.0.765.6079.3-2j0j6j2.10.0...0.0...1c.1.12.hp.qgOLi8RkfRo&psj=1&bav=on.2,or.r_cp.r_qf.&bvm=bv.46340616,d.bGE&fp=3a40a8cc297be8f&biw=1024&bih=638


https://www.google.it/#sclient=psy-ab&q=%22talmente+tanto%22:+ricerca.repubblica.it&oq=%22talmente+tanto%22:+ricerca.repubblica.it&gs_l=hp.12...339610.343360.3.348610.10.10.0.0.0.7.1453.7093.3-2j1j4j1j2.10.0...0.0...1c.1.12.hp.NGlpA37aOBE&psj=1&bav=on.2,or.r_cp.r_qf.&bvm=bv


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Si può strozzare una persona senza ucciderla?

Cliccate su questo collegamento: http://www.corriere.it/cronache/13_maggio_14/strozza-madre-chieti_0d02c96e-bc7c-11e2-996b-28ba8ed4f514.shtml

venerdì 10 maggio 2013

Darsi ai bagordi



C'è qualcuno, fra gli amici blogghisti, che può affermare, con assoluta onestà, di non aver mai messo in pratica il modo di dire suddetto che significa "darsi alla pazza gioia"? Quest'espressione è giunta a noi dal provenzale
 «ba(g)ordar», alla lettera 'giostrare'. Il bagordo era, infatti, un tipo di lancia usata nei tornei (giostre) cavallereschi. In seguito, per estensione, al verbo "bagordare", vale a dire 'far bagordi' è stato dato il significato di festeggiare, per arrivare all'accezione di 'gozzovigliare'. Il bagordo (cioè la lancia) con il trascorrere del tempo è diventato, dunque, sinonimo di gozzoviglia, saturnali, crapula.
La "parola" al Pianigiani, che dà una spiegazione un po' diversa:




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Vomitevole e... vomitoso

Faremo rabbrividire qualche linguista se, per caso, si dovesse imbattere in questo sito. Vogliamo parlare di un aggettivo non attestato nei vocabolari dell'uso: vomitoso. A nostro modo di vedere si può adoperare in senso figurato (in luogo di 'vomitevole'). Quella minestra era veramente vomitevole (uso proprio); Luigi, in quella circostanza, ha assunto un atteggiamento vomitoso (uso figurato). Vomitoso, insomma, ha tutti i requisiti degli aggettivi in "-oso". Se da gola abbiamo goloso, da vergogna vergognoso ecc., perché da vomito non possiamo avere vomitoso?

PS. Per curiosità abbiamo fatto un "viaggio" in rete e abbiamo scoperto che qualcuno ci ha preceduto. Vomitoso si trova in alcune pubblicazioni.
https://www.google.it/search?q=%22vomitoso%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it

giovedì 9 maggio 2013

La trofologia

Si presti attenzione, la trofologia non è la scienza che tratta dei... trofei, bensí la scienza che si occupa degli alimenti. Chissà perché il termine è ignorato dall'autorevole vocabolario "Treccani". Ma tant'è. La trofologia, dunque, è, come recita il Gabrielli in rete, quella «parte della bromatologia che studia gli alimenti in rapporto all'organismo che se ne nutre; scienza dell'alimentazione».
http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=bromatologia&searchfor=bromatologia&searching=true

Vediamo anche il Pianigiani:




Si vedano inoltre questi collegamenti:

http://books.google.it/books?id=s8huviPcvcoC&pg=PA22&dq=%22trofologia%22&hl=it&sa=X&ei=BdmKUYGeMYnVPMLGgLAH&ved=0CEgQ6AEwBA#v=onepage&q=%22trofologia%22&f=false

http://spazioweb.inwind.it/ricettecucina/trofologia.htm

mercoledì 8 maggio 2013

Essere (o avere) una remora

Questo modo di dire – adoperato anche nelle varianti “farsi delle remore”, “vincere le remore”, “superare le remore”, “avere delle remore” – significa, come si sa, «essere d’impaccio», «costituire un ostacolo», «essere di freno» sia in senso fisico sia in senso morale. Quante volte diciamo, inconsciamente, “non avere delle remore, agisci come credi”, vale a dire non indugiare, non mettere un freno alle tue azioni. Bene. Qual è l’origine dell’espressione? Per la verità la questione è un po’ controversa. Alcuni, e tra questi il Pianigiani, danno al termine remora, trasportato pari pari dal latino all’italiano, lo stesso significato che aveva nella lingua originaria: ritardo, indugio, dilazione. E in questo caso si adopera, infatti, in espressioni del tipo “concedere una remora al pagamento”, “concedere una remora all’applicazione di un accordo”. Altri, invece, fanno derivare la locuzione dal nome di un pesce, della famiglia dei Teleostei, lungo circa 40 centimetri, il cui dorso presenta una specie di ventosa che gli permette di attaccarsi agli altri pesci o alle imbarcazioni ‘frenandone’ la corsa. Quest’ultimo punto, però, è solo un’antica credenza ricordata anche dal Manzoni nel suo capolavoro. Colui che ha delle remore, dunque, in senso traslato ha un “pesce” che lo induce a rallentare il movimento o a porre un freno alle sue idee.


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Un’altra perla della lingua dei grillini, che stanno infierendo sull'italico idioma, mortalmente ferito dall'itangliano.

"Sondaggio" Quanti di voi in questo forum sono d'accordo per la scelta di Grillo che a candidato come Presidente della Repubblica Rodotà? Vota la stellina se sei d'accordo.
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martedì 7 maggio 2013

Ricordatevi dell'antifernale

Gli amici blogghisti che stanno per convolare a nozze preparino, per quel giorno, l'antifernale da dare alla futura consorte. Antifernale! Chi è, cos'è? parafrasando il principe degli scrittori. Il termine è ignorato dai vocabolari dell'uso (le sole eccezioni - ci sembra - il GDU del De Mauro e il Gabrielli, che registrano "antiferna") e sta per "dono".
È un regalo che il futuro sposo fa alla futura sposa per "pareggiare" la dote. Vediamo il Pianigiani:
Si veda anche questo collegamento: http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=antifernale&searchfor=antifernale&searching=true


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Tradizionale o tradizionalista?

Salvatore Claudio Sgroi spiega la differenza.
Si clicchi su: http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/tradizionale-tradizionalista


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Il colpo di grazia alla Lingua Italiana: *Si vestino
vestino.jpg

lunedì 6 maggio 2013

La siringa? Una bella ninfa

Avreste mai immaginato che la "siringa", cioè quello strumento di vetro o di plastica nel quale scorre uno stantuffo e alla cui estremità è collocato un ago e adoperato per le iniezioni o altri scopi, deve il nome alla mitologia? Siringa era il nome di una bellissima ninfa greca, figlia del dio del fiume Ladone, della quale si invaghí il dio Pan. Il suo amore, però, non era ricambiato e Siringa fuggí chiedendo aiuto al padre, che la tramutò in un canneto. Pan tagliò allora vari pezzi di canna e, unitili in ordine digradante, ottenne lo strumento a fiato detto, ancor oggi, "siringa di Pan".
Vediamo anche ciò che dice Ottorino Pianigiani:




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Un'interessante disquisizione sul sito Cruscate circa la correttezza di "crediamo sia doveroso capire se tutte le decisioni fino ad ora adottate siano il meglio che potessimo fare."

http://www.achyra.org/cruscate/viewtopic.php?t=3788&postdays=0&postorder=asc&&start=0




domenica 5 maggio 2013

«Ripugnevole», perché no?




Pregiatissimo dottor Raso,
un amico mi ha indirizzato al suo blog per risolvere un dubbio linguistico. L’insegnante di mio figlio (I liceo scientifico) ha sottolineato con la fatidica matita blu un “ripugnevole” che mio figlio ha adoperato in un componimento. Secondo il docente “ripugnevole” non esiste, la sola forma corretta è “ripugnante”. Ha ragione l’insegnante? In effetti tutti i vocabolari che ho consultato non attestano l’aggettivo in oggetto. La ringrazio anticipatamente per la cortese risposta che vorrà darmi e la saluto cordialmente.
Ovidio P.
Macerata
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Gentile Ovidio, “ripugnevole”, effettivamente, non è attestato nei vocabolari dell’uso, che registrano solamente “ripugnante”. Non mi sento, però, di condannare (e qui mi attirerò gli strali di qualche linguista) “ripugnevole”, formato con “ripugnare” e il suffisso “-evole”.
Leggiamo dal “Treccani”:
«-évole [lat. -ĭbĭlis]. – Suffisso derivativo di aggettivi che hanno per lo più senso attivo, benché non manchino esempî di senso passivo, ed esprimono l’attitudine, la capacità, la possibilità o la necessità di quanto predicato dal verbo che funge da base: biasimevole, girevole, incantevole, lacrimevole, onorevole, piacevole, scorrevole. Per estensione, il suffisso è usato non di rado per trarre aggettivi da nomi: compassionevole, favorevole, ragionevole. Le varianti dotte sono -abile e –ibile».
L’aggettivo contestato dal docente si trova, inoltre, in alcune pubblicazioni. Clicchi sul collegamento in calce.

sabato 4 maggio 2013

Abbottacciare / abbottacciarsi






Tra le parole che ci piacerebbe fossero riesumate e messe di nuovo a lemma nei vocabolari segnaliamo il verbo “abbottacciarsi”, che vale fidarsi. I dizionari, dicevamo, non lo registrano piú. Lo troviamo nel Tommaseo-Bellini e in “Studi di grammatica italiana” – Accademia della Crusca, 1976.

http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=abbottacciare&searchfor=abbottacciare&searching=true


http://books.google.it/books?id=YiVdAAAAMAAJ&q=%22abbottacciare%22&dq=%22abbottacciare%22&hl=it&sa=X&ei=YgmEUdrjH-eQ7Ab5gYEg&ved=0CDIQ6AEwADgU


venerdì 3 maggio 2013

Sfastidiare e fastidiare

Gentile dott. Raso,
leggendo un articolo sul web, mi sono imbattuto in "sfastidiare", usato nel senso di "dare fastidio"; non è, invece, proprio il contrario di "fastidiare"? La Crusca riporta, infatti, il senso di "riacquistare il gusto".
Cordialmente,
Melchis
(Località omessa)
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Gentile Melchis, sarò tacciato di presunzione e fustigato da qualche linguista ma dissento dalla Crusca. "Sfastidiare", verbo pressoché inusitato, è lo stesso che fastidiare al quale si preferisce, però, "infastidire". È composto con il prefisso "s-", con valore intensivo, e fastidiare. È lo stesso caso, insomma, di battere/sbattere, gocciolare/sgocciolare e simili. La mia tesi è suffragata dal GDU del De Mauro: «sfastidiare /sfasti'djare/ v.tr. e intr. )( [1348–53; der. di fastidiare con s–] 1 v.tr. ) infastidire, annoiare 2 v.intr. (avere) )( annoiarsi, stancarsi di qcs.: delle cose di che l'uomo abondevole si truova sfastidiano (Boccaccio)».

mercoledì 1 maggio 2013

La festa del lavoro


Un caro saluto agli amici blogghisti, che con il loro lavoro concorrono allo sviluppo economico del nostro Paese