lunedì 31 dicembre 2012

Che scataluffo!

«Ora verrai con me dai signori Bombardini; cerca di comportarti bene - disse Piergiacomo al figlio Rossano - altrimenti quando rientreremo in casa di riempirò di scataluffi, tanti da ricordartene per tutta la vita». Scataluffo, ecco un altro vocabolo che i lessicografi hanno relegato nella soffitta della lingua. Ed è un vero peccato - a nostro avviso - perché il termine, che significa "ceffone", "schiaffo", "scapaccione" e simili è immortalato nel vocabolario degli Accademici della Crusca. Andrebbe rispolverato, dunque, e rimesso a lemma nei vocabolari che si rispettino.
Si veda questo collegamento:
https://www.google.it/#hl=it&tbo=d&output=search&sclient=psy-ab&q=scataluffo&oq=scataluffo&gs_l=hp.3...128203.131875.1.135641.10.10.0.0.0.1.1156.3734.5-2j2j1.5.0...0.0...1c.1.pdOcKdd8b7g&psj=1&bav=on.2,or.r_gc.r_pw.r_cp.r_qf.&bvm=bv.1355534169,d.Yms&fp=f24b5cbce348b609&bpcl=40096503&biw=1024&bih=638

domenica 30 dicembre 2012

Baldoria di Capodanno

Ci siamo. Domani è l’ultimo giorno del 2012, molti giovani stanno contando le ore che mancano all’arrivo del nuovo anno per salutarlo “scatenandosi” in una gioiosa baldoria. Ma cos’è questa baldoria? Propriamente il termine indica “allegrezza”, “felicità”, “gioia” ma soprattutto “allegria rumorosa”. Il vocabolo proviene dall’antico tedesco “bald” (ardito, fiero, coraggioso) con il quale si indicava un giovane molto fiero, coraggioso in quanto dentro di sé “ardeva”. E colui che ‘dentro’ arde è festoso, allegro, arde come il fuoco che si fa per festeggiare qualche lieto avvenimento. L’espressione “far baldoria”, ci fanno sapere le note linguistiche al «Malmantile racquistato» (un poema burlesco) indica, infatti, «un fuoco acceso in occasione di feste». In senso metaforico, quindi, tutti coloro che fanno baldoria per la ricorrenza di qualche festa non fanno altro che… “accendere un fuoco”.


http://www.dizionario.org/d/index.php?pageurl=baldoria&searchfor=baldoria&searching=true

sabato 29 dicembre 2012

Fare un colpo gobbo

Questo modo di dire, pur avendo una sola “matrice”, ha due significati distinti: «mossa astuta e traditrice o mano fortunata nei vari giochi d’azzardo» e - questo il significato principe - «ottimo successo in campo finanziario di un’operazione che si riteneva desse risultati inferiori al previsto e nata, anche, da un caso fortuito». La locuzione ci è stata “regalata” dal linguaggio malavitoso, dove l’espressione indicava un colpo ladresco, molto rischioso, ma particolarmente redditizio. Da non confondere, a questo proposito, con l’altra espressione «dare a uno un colpo gobbo» la cui origine non ha nulla che vedere con la precedente. In questa locuzione, infatti, il “colpo gobbo” che, in senso figurato, indica un’azione che mira a colpire qualcuno in modo improvviso e, spesso, indiretto è l’equivalente di “colpo storto” lasciatoci in eredità dai duellanti di un tempo. “Storto”, nel “linguaggio duellesco”, era una finta, vale a dire un colpo apparentemente indirizzato in un punto e, poi, improvvisamente, deviato al fine di spiazzare l’avversario. Con significato affine si adopera l’espressione «fare uno scherzo da prete», cioè un qualcosa che non ci si sarebbe mai aspettato e che, quindi, si accetta poco volentieri vista la “provenienza”….

giovedì 27 dicembre 2012

Il portafoglio o il portafogli?

Secondo i vocabolari dell'uso e secondo... l'uso corrente i due termini sono uno sinonimo dell'altro, da adoperare, quindi, indifferentemente. C'è, invece, una differenza, e la spiegano il vocabolario di Aldo Gabrielli e il DOP, Dizionario di Ortografia e di Pronunzia della Rai.

Gabrielli: portafogli

[por-ta-fò-gli]
A s.m. inv.
1 Custodia di pelle, stoffa o altro materiale, per conservarvi denaro, documenti personali e sim., che si porta solitamente in tasca
Avere il portafogli pieno, gonfio, vuoto, avere, non avere denari
Mettere mano al portafogli, pagare

SIN. borsello

2 Borsa o grande busta dove professionisti o politici ripongono i documenti

B anche agg. inv.

busta p.

------------

portafoglio
[por-ta-fò-glio]
s.m. (pl. -gli)

1 Portafogli

2 BUR Carica di ministro, ministero: il p. dell'Interno, degli Esteri, della Finanza, della Pubblica Istruzione

Ministro senza portafoglio, membro del governo che ha la carica di ministro, senza però essere a capo di nessun dicastero particolare

3 ECON Insieme delle attività e delle passività detenute da un individuo, un'azienda, un ente finanziario e sim.

Portafoglio clienti, complesso dei clienti di un agente di commercio

BANC Complesso delle cambiali scontate e conservate per le scadenze e altri titoli di credito posseduti da una banca

FINANZ Insieme dei titoli e delle azioni possedute da un operatore, sia esso un privato o un ente

Insieme delle polizze emesse da una compagnia assicurativa in una determinata data

***

DOP: http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=29500&r=2749

mercoledì 26 dicembre 2012

La meronimia


Tutte le grammatiche -se non cadiamo in errore - non fanno cenno alcuno a quella parte della linguistica che va sotto il nome di "meronimia". L'argomento, invece, è interessante e andrebbe trattato. Vogliamo vedere di cosa si tratta? Clicchiamo su: http://www.treccani.it/enciclopedia/ricerca/meronimia/

martedì 25 dicembre 2012

Buon Natale



Un sereno Natale 2012 agli amici blogghisti che ci onorano della loro attenzione

domenica 23 dicembre 2012

Colui...

Probabilmente ci attireremo gli strali di qualche linguista se sosteniamo che non è scorretto l'uso di colui (o colei) - in funzione di soggetto e di complemento - non seguito dal pronome relativo (colui che, colei che). Abbiamo l'avallo di Luciano Satta, che riporta gli esempi di autorevoli scrittori: «- Buon giorno - disse colui scappellandosi...» (Bacchelli); «... Ella ha amato a tal punto colei da poter quindi pronunciarsi» (Santucci).

sabato 22 dicembre 2012

Sei un tarpagnuolo!

«Sei proprio un tarpagnuolo! Non ti vergogni?». È un vero peccato – a nostro modesto avviso – che i vocabolaristi abbiano deciso di snobbare l’aggettivo “tarpagnuolo”, che significa ‘rozzo’, ‘volgare’, ‘goffo’, ‘zotico’ ma soprattutto ‘turlupinatore’, ‘truffatore’ e simili. Un uomo tarpagnuolo, dunque, può essere, secondo il contesto, una persona rozza o un truffatore. L’aggettivo ripudiato, per la cui etimologia rimandiamo al collegamento in calce, si trova in numerose pubblicazioni.


http://www.etimo.it/?term=tarpagnuolo&find=Cerca   

http://www.etimo.it/?cmd=id&id=18066&md=ad7b690b4516790b0a32ef177e446605

venerdì 21 dicembre 2012

Giusto fu impiccato a La Storta

Chissà quanti amici blogghisti – non sapendolo – hanno provato sulla loro pelle – in senso figurato, naturalmente – questo modo di dire (di origine romana: non sappiamo, onestamente, se il detto abbia varcato i confini dell’Urbe) che sta a significare che in questo mondo non c’è giustizia. Quanti lettori di queste noterelle, per esempio, nella loro vita lavorativa si sono visti “scavalcare” – in posti direttivi o di responsabilità – da colleghi non meritevoli? Per queste persone vale il detto sopra citato: «Giusto fu impiccato a La Storta»; per loro, infatti non c’è stata giustizia. L’espressione – come dicevamo – è nata a Roma sotto il pontificato di Sisto V. Si dice che un certo Giusto, reo di un gravissimo reato del quale sperava di rimanere impunito, mentre tranquillamente cercava di entrare nella Città Eterna, fu catturato a La Storta, alle porte della città, dalle guardie papaline e immediatamente impiccato, senza avere il tempo di mettere piede a Roma per un eventuale processo. Il popolo, venuto a conoscenza del fatto, disse che se Giusto non poté entrare nell’Urbe, un tempo culla del diritto, vuol dire che a Roma non può esserci giustizia, e coniò l’espressione citata, volendo significare, in senso lato, che la giustizia non è di questo mondo.

mercoledì 19 dicembre 2012

Riffa di fine d'anno

Durante le festività natalizie, ma soprattutto di fine anno – come è consuetudine, ormai – non c’è bar o negozio di generi alimentari (ma non solo) che non organizzi per i propri clienti una grandiosa riffa mettendo in palio il meglio dei prodotti che il mercato possa offrire.


Il termine riffa è conosciutissimo; se apriamo un qualsivoglia vocabolario (anche quelli che definiamo “permissivi”) alla voce in oggetto, possiamo leggere: lotteria privata, avente per premio un oggetto di valore. Ciò che, probabilmente, molti non sanno, o meglio non conoscono, è la derivazione di questo vocabolo – tanto di attualità in questo particolare periodo – che non ha origini italiche bensí iberiche.

Riffa è, infatti, l’adattamento della voce spagnola “rifa” che significa, per l’appunto, “lotteria”. Non dobbiamo dimenticare che il nostro Paese, nel corso dei secoli, è stato terra di conquista di molti popoli, tra i quali anche gli Spagnoli; è normale, quindi, che la lingua italiana abbia risentito dell’influenza del lessico di questo popolo.

La lotteria, anzi la riffa, ci richiama alla mente una locuzione, un modo di dire di uso corrente: “di riffa o di raffa”. Quante volte vi sarà capitato di dire o di sentir dire: ‘di riffa o di raffa, hai ottenuto ciò che volevi’; lo scopo è stato raggiunto in un modo o nell’altro, comunque sia; questo è, infatti il significato dell’espressione.

Per la spiegazione di questa locuzione occorre sapere che ‘riffa’ ha anche un’altra accezione: prepotenza. L’etimologia, in questo caso, non è molto chiara. Alcuni Autori fanno derivare il vocabolo dall’uso partenopeo di ‘riffa’ nel significato di “contesa”, “baruffa”. Raffa, invece, deriva dall’antico verbo “raffare”, aferesi di “arraffare” (l’aferesi – in linguistica – è la caduta di una o piú lettere all’inizio di una parola), “afferrare”, “strappare con violenza”. Di riffa o di raffa, in un modo o nell’altro, quindi – stando all’etimologia dei due termini – sempre di prepotenza.



http://www.etimo.it/?term=riffa&find=Cerca 





lunedì 17 dicembre 2012

Parole iberiche nel nostro idioma


Il nostro Paese – come si sa – è stato terra di conquista di molti popoli che hanno lasciato le loro “impronte” nel nostro idioma. Non possiamo sottacere, quindi, il fatto che gli Spagnoli, essendo stati i “padroni” di alcune nostre regioni, abbiano lasciato un segno indelebile della loro cultura e della loro lingua, ci abbiano dato, insomma i cosí detti iberismi. Vediamo, innanzi tutto, che cosa si intende con il termine “iberismo”. In linguistica si chiama cosí ogni parola o locuzione spagnola (o portoghese) entrata nell’uso comune della nostra lingua, solitamente con modificazioni della grafia e della pronuncia adeguandosi – in tal modo – ai sistemi grafici e fonetici del nostro idioma. Gli iberismi presenti nella nostra lingua si possono dividere in due gruppi: a) termini provenienti dallo spagnolo, propriamente detti “ispanismi”; b) vocaboli provenienti dal portoghese, propriamente chiamati “lusismi” (dall’antico nome del Portogallo: Lusitania). Questi ultimi, per la verità, non sono molti, al contrario degli ispanismi che entrano nell’italiano nel periodo che va dalla seconda metà del secolo XVI alla fine del XVII secolo, in coincidenza, appunto, del dominio spagnolo in Italia. Nei secoli precedenti sono poche le voci spagnole entrate nella lingua, ricordiamo “maiolica”; “infante” (nell’accezione di “principe reale”); “gala”(entrato, però, attraverso il francese) e “marrano”. La maggior parte degli iberismi, o meglio ispanismi, si ha – come abbiamo visto – con la dominazione spagnola. In questo periodo entrano nel nostro idioma termini militari come “alfiere” e “recluta” (voce derivata dal francese “recrue”, participio passato femminile del verbo “recroite”, ‘ricrescere’, “ricrescita”; come osserva il Tommaseo “accrescimento delle milizie per giunta di nuovi militi. C’è anche da dire che i puristi vorrebbero si dicesse “reclúta”, con l’accento sulla “u”, con la pronuncia piana, dunque, come la gran parte delle nostre parole); voci della moda: “alamaro”, “guardinfante”; termini marinareschi: “rotta”, “doppiare”, “nostromo”, “flotta”, “flottiglia”, “risacca”; termini vari: “buscare”, “appartamento”, “arrabattarsi”, “floscio”, “accudire”; voci “danzatorie” come “sarabanda” e “ciaccona”; termini di “comportamento sociale” come “baciamano”, “etichetta”, “creanza”, “disinvoltura”.

Dopo un periodo di stasi, in cui l’influenza spagnola sulla nostra lingua è pressoché nulla, si ha un “risveglio” nell’Ottocento in cui entrano nel nostro linguaggio vocaboli come “bolero”, “baraonda”, “caramella”, “camarilla”, “compleanno”, “corrida”, “disguido”, “guerrigliero”, “farfugliare”.

Pochi, invece, come abbiamo accennato all’inizio, i “lusismi” accolti nel nostro vocabolario in quanto i rapporti tra il nostro Paese e il Portogallo sono stati – nel corso dei secoli – quasi nulli e per lo piú indiretti; ciò spiega la “pochezza” del linguaggio italo-lusitano. Citiamo, dunque, i “lusismi” che tutti adoperiamo inconsciamente: “marmellata”, “casta”, “tolda”, “autodafé”. Il portoghese, tuttavia, come lo spagnolo, ha il “merito” di avere introdotto nella nostra lingua termini derivati dalle diverse lingue originarie dei Paesi extraeuropei che furono a lungo colonia della penisola iberica: “banana”, “bonzo”, “samba”, “pagoda”, “cavia”, “macao”, “mandarino”.



domenica 16 dicembre 2012

A giumelle

Cortese dott. Raso,
sono un suo “fan”, la seguo dal tempo del “Cannocchiale”. Le scrivo per una curiosità. Leggendo un vecchio libro mi sono imbattuto in un’espressione che non avevo mai sentito: “a giumelle”. Ho cercato nei vocabolari in mio possesso, ma non ho ricavato un ragno dal buco. Può dirmi se esiste e soprattutto che cosa significa?
Grazie e distinti saluti
Rossano P.
Cosenza

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Gentile Rossano, l’espressione esiste, anche se non comune e, di conseguenza, poco conosciuta. Significa “in abbondanza” e indica una quantità di qualcosa che può essere contenuta nel concavo di entrambe le mani accostate. Le copincollo quanto riporta, in proposito, il vocabolario Treccani in rete:

giumèlla s. f. [lat. gemĕlla (manus) «(mano) doppia», femm. dell’agg. gemellus «doppio»]. – Cavità formata dalle mani accostate insieme con le dita riunite e leggermente incurvate verso l’alto; soprattutto nella locuz. fare giumella, e meno com. fare giumelle (delle mani, delle palme): bevono facendo giumella delle palme (Carducci). Anche, quanto entra o può essere contenuto in tale cavità: una g. di riso, di farina, di fagioli, ecc. Come locuz. avv., non com., a giumelle, in abbondanza.

La locuzione si trova in molte pubblicazioni. Clicchi su: https://www.google.it/search?q=%22a+giumelle%22&btnG=Cerca+nei+libri&tbm=bks&tbo=1&hl=it  

sabato 15 dicembre 2012

Vedettero e provvedettero

Abbiamo notato – se non cadiamo in errore – che tutti i “sacri testi” consultati non menzionano il fatto che i verbi “vedere” e “provvedere” dispongono di due forme del passato remoto, riportano solo quelle piú conosciute: “vidi” e “provvidi”. No, accanto a vidi e provvidi abbiamo anche “vedetti” e “ provvedetti”. Vediamo nei dettagli:

io vidi, vedetti
tu vedesti
egli vide, vedette
noi vedemmo
voi vedeste
essi videro, vederono, vedettero


io provvidi, provvedetti
tu provvedesti
egli provvide, provvedette
noi provvedemmo
voi provvedeste
essi provvidero, provvederono, provvedettero.

Possiamo dire e scrivere, per esempio, che «quando Giovanni e Carlo vedettero lo stato di abbandono in cui versava l’appartamento provvedettero subito a ristrutturarlo». Nessuno, state tranquilli, potrà tacciarci di ignoranza linguistica.

mercoledì 12 dicembre 2012

È vietato di sostare...



Gentilissimo dott. Raso,
durante una passeggiata domenicale mi sono imbattuto in un cartello affisso a un portone “istituzionale” e che ha richiamato la mia attenzione: «È vietato di sostare davanti al portone». Io ho sempre detto e sentito “è vietato sostare”, senza la preposizione “di”. La scritta sul cartello non è, dunque, errata? O si può dire? Mi faccia capire, la prego.
Grazie e cordialità
Silvio T.
Ragusa

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Cortese amico, la scritta sul cartello è perfettamente in regola con le leggi grammaticali anche se, personalmente, preferisco omettere la preposizione “di”. La regola grammaticale stabilisce che davanti a un verbo di modo infinito, in funzione di soggetto, la preposizione “di” si può omettere o no. Dipende esclusivamente dal gusto stilistico del parlante o dello scrivente. Quindi: è vietato sostare o è vietato di sostare. Io sono per l’omissione della preposizione perché questa “sa” di francesismo.

domenica 9 dicembre 2012

Un pranzo opiparo



Un altro termine che la totalità (?) dei vocabolari ha deciso di "rinnegare": opiparo. A noi, invece, sembra elegante e lo consigliamo. Ma che cosa significa? È presto detto: sontuoso, dispendioso e simili. Il vocabolo è immortalato nel vocabolario della Crusca:

http://books.google.it/books?id=c_E9AAAAYAAJ&pg=PA462&dq=%22opiparo%22&hl=it&sa=X&ei=N5a-UNf_FKaH4ATG5oH4BA&ved=0CD0Q6AEwAw#v=onepage&q=%22opiparo%22&f=false

sabato 8 dicembre 2012

Per rilassarsi un po'...




La lingua, a volte, serve anche per rilassarsi un po'.
Si clicchi su: Strafalcioni linguistici e castronerie - YouTube

mercoledì 5 dicembre 2012

Il melofaro

È un vero peccato che buona parte dei vocabolari, se non tutti, abbiano relegato nella soffitta della lingua la voce “melofaro”. Forse perché si riferisce alle serenate, oggi non piú di moda? Il melofaro, infatti, è una sorta di faro o di fanale dove, invece dei vetri, c’è della carta sui cui sono scritte le note musicali e le parole e serviva, per l’appunto, al “serenante”.


Si vedano questi collegamenti:

http://books.google.it/books?id=QXBLAAAAYAAJ&pg=RA1-PA29&dq=%22melofaro%22&hl=it&sa=X&ei=OEG-UODNN8mGswammYCwDA&ved=0CDkQ6AEwAg#v=onepage&q=%22melofaro%22&f=false



http://books.google.it/books?id=c_E9AAAAYAAJ&pg=PA144&dq=%22melofaro%22&hl=it&sa=X&ei=bUC-UL7DNYrHsgaqtoHIDg&ved=0CEgQ6AEwBw#v=onepage&q=%22melofaro%22&f=false  



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Essere l’uscio del trenta

Non vorremmo essere tacciati di presunzione se affermiamo che molti (tutti?) lettori, pur non conoscendo questo modo di dire, lo mettono in pratica ogni qual volta la loro casa si riempie di gente e, quindi, diventa un luogo molto frequentato con un impressionante viavai di persone. L’espressione è la contrazione del detto (sconosciuto?) “essere l’uscio del trenta, chi esce e chi entra”, dove, però, quel trenta non ha nulla che vedere: è motivato da ragioni di pura assonanza. E a proposito di uscio, avete mai sentito la locuzione “trovare l’uscio di legno”? Anche se non l’avete mai sentita l’avete messa in pratica, inconsciamente, quando recandovi a far visita a una persona non l’avete trovata: avete trovato solo la porta chiusa, cioè l’uscio di… legno.





martedì 4 dicembre 2012

Gli abitanti del Qatar







Come si chiamano gli abitanti del Qatar?
Un interessante articolo di Matilde Paoli (redazione Crusca)

Si clicchi su: http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/qatar-abitano-qatariani-qatarini-qatarioti

lunedì 3 dicembre 2012

Avere il baco

C’è un solo lettore di queste modeste noterelle che possa dire – onestamente – di non essere mai stato posseduto, naturalmente in senso figurato, da un baco? Se, per caso, ce ne fosse uno, mentirebbe spudoratamente: tutti nella vita, prima o poi, abbiamo avuto che fare con questo animaletto. Perché? Perché tutti ci siamo innamorati. Questo è, infatti, il significato della locuzione che avete appena letto. Dice il principe dei modi di dire, Ludovico Passarini, che «baco è lo stesso che verme, e il verme è un tremendo roditore sordo, che, lentamente sí, ma senza posa consuma le viscere del corpo in cui è nato e tiensi nascosto. Orrendi sono i danni prodotti dal verme, e il piú spesso irreparabili, perché non avvertiti a tempo. La peggiore malattia che incoglie i bambini è quella detta appunto dei bachi o dei vermi; le povere mamme lo sanno. I vermi morali poi sono i piú fieri; e che voglia che dirsi e che fare; il verme del rimorso strazia irreparabilmente. Se stesse bene prendere in burla tal pensiero, si potrebbe il rimorso chiamare il “verme solitario” dell’anima. Dal verme, dunque, che adagino adagino lavora dentro, guasta il sangue, scolorisce i be’ visini e infonde malinconia e tristezza, che non la sa chi non la prova, dico essere provenuta la metafora “avere il baco” (…) “Avere il baco di che sia” vale, quindi, figuratamente, essere innamorato, siccome spiegano i vocabolari. Significa ancora, pretenderla in qualche cosa, avere passione. Il Bellini nella “Cicalata” posta innanzi alla sua “Bucchereide” a c. 6 “dice di piú che questo vostro parente non ha altro da tacciarsi, che un piccolo difettuzzo , e questo è un po’ di baco di Poeta, e che però stasera cicalerà verseggiando” (…)».


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“Squadrati”, un articolo di Silverio Novelli

Si clicchi su: http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/parole/Squadrati.html  

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"Uso" e "utilizzo"

Dal sito "Cruscate", moderato dal prof. Marco Grosso:

 So che è molto in voga, anche negli scritti del sito della Crusca, ma la parola utilizzo andrebbe limitata ai casi in cui si sfrutta qualcosa: utilizzo dell’invenduto, degli scarti di lavorazione; utilizzo di fondi, di residui attivi (esempi tratti dal Treccani). Quando si tratta di parole, abbiamo a disposizione uso e impiego.


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Il plurale di "zeta"

Sul plurale di 'zeta' i vocabolari non sono concordi.
Sabatini Coletti: http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/Z/zeta.shtml
Gabrielli: http://dizionari.repubblica.it/Italiano/Z/zeta.php
DOP: http://www.dizionario.rai.it/poplemma.aspx?lid=499&r=20547
Garzanti linguistica: http://garzantilinguistica.sapere.it/it/dizionario/it/lemma/9728b0d63782bb9c6b6b9dfb2870a6b7b06b1104
Palazzi: indeclinabile
De Mauro: indeclinabile